Contro ogni pronostico, la riforma della Giustizia firmata Cartabia ha ottenuto l’approvazione della Camera dei Deputati, con 396 voti a favore e 57 contrari, e a settembre approderà al Senato. Prima dell’approvazione sono stati esaminati 95 emendamenti e ordini del giorno presentati da Fratelli D’Italia, che ha votato contro. Il partito capeggiato da Giorgia Meloni, tuttavia, non era l’unico da cui ci si poteva aspettare brutti tiri. In sede di approvazione, la maggioranza si è ricompattata per un pelo, dopo innumerevoli dietrofront e ripensamenti dei pentastellati.
Non c’è dubbio, infatti, che la riforma della Giustizia di cui si parla rappresenti per gli esponenti del MoVimento 5 Stelle esattamente l’opposto di quanto portato avanti con l’ex Ministro Alfonso Bonafede e, in particolare, dalla riforma Spazzacorrotti. E, così, i 462 voti inizialmente prospettati sono diventati 396, con numerose assenze tra le file della maggioranza che dimostrano il disaccordo: la Lega ha dichiarato di non aver alcun problema con la riforma e che i suoi 23 assenti fossero in gran parte in quarantena o malati, 14 i non partecipanti al voto del PD, 26 per Forza Italia, 16 per il M5S. Inoltre, due esponenti pentastellati, Luca Frusone e Giovanni Vianelli, hanno votato contro.
Il tema, per il quale avevamo già prospettato serie difficoltà a trovare un accordo, stante l’eterogeneità delle forze politiche in campo, non è sicuramente pacifico. Non a caso, dopo aver partecipato all’approvazione unanime del testo a inizio luglio, probabilmente spinto dalla crisi interna e dalla mancanza di leadership, il MoVimento ha messo in discussione il testo. E, nonostante in sede di accordo con Mario Draghi l’ex Premier Giuseppe Conte avesse accettato di rivedere soltanto la riforma, senza stravolgerla nella sua natura, i pentastellati hanno presentato 900 emendamenti. Considerate voi se questa può ancora definirsi una maggioranza, ancor meno una maggioranza compatta.
In ogni caso, si è giunti a un compromesso, spinti essenzialmente dalla necessità di accaparrarsi i finanziamenti del Recovery Fund, per i quali sono dettati specifici vincoli, e sembrano essere venute meno alcune delle istanze giustizialiste che tanto fanno smaniare i 5 Stelle. Su temi così rilevanti, su cui dovrebbe avviarsi un dibattito serio e ampio, si fanno patti al ribasso per non scontentare nessuno e, di fatto, non cambiare nulla, ignorando le continue sollecitazioni che sono pervenute in senso contrario in tutti questi anni.
Il tema più rilevante su cui si è innescata maggiormente la discussione è stato quello dei tempi del processo penale: l’Italia si trova infatti nella zona d’allarme europea, con 1.6 milioni di procedimenti pendenti al 31 dicembre 2020, più di quelli pendenti negli anni del primo decennio del secolo. La riforma tenta quindi di introdurre numerosi strumenti acceleratori, tra cui la digitalizzazione del processo, e deflattivi, incentivando l’utilizzo di riti alternativi e riducendo numerose tempistiche, tra cui quelle di svolgimento delle indagini preliminari.
Ma l’aspetto più rilevante riguarda sicuramente la prescrizione: si tratta di un istituto che sostanzialmente evita il perdurare del processo laddove sia oramai venuto meno l’interesse pubblico all’irrogazione della sanzione per il decorso del tempo. Essa è stata eliminata dopo la sentenza di primo grado per volere di Alfonso Bonafede, allungando ancora di più i tempi processuali, la riforma, invece, interviene ora a dettare varie ipotesi di improcedibilità, sia in Appello che in Cassazione: decorsi rispettivamente due e un anno, i processi si fermeranno. Tuttavia, la lista delle eccezioni – dettate dalla natura dei reati – si è allungata a dismisura, con la possibilità di chiedere la prosecuzione del processo da parte dei giudici, e sono state introdotte disposizioni transitorie per i primi tre anni che, di fatto, rischiano di non abbreviare i tempi dei procedimenti.
Rilevanti novità riguardano anche il sistema sanzionatorio, con numerose deleghe rivolte al governo – ahinoi – per implementare ed estendere l’applicazione delle misure alternative alla detenzione e delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Positivo il riferimento alla giustizia riparativa, che lascia intendere un nuovo modo di gestire l’ambito giustizia e le pene. A tal proposito, Alfonso Bonafede ha dichiarato di votare orgoglioso la fiducia perché parte di un gruppo che ha deciso di contare su una questione importante come la giustizia. Ci sembra un’affermazione piuttosto contraddittoria da parte di chi fino a ora ha soltanto invocato punizioni esemplari, che nel tempo in cui è stato ministro non ha saputo gestire in alcun modo la situazione pandemica nei luoghi di privazione della libertà, che ha definito la mattanza di Santa Maria Capua Vetere un mero ripristino della legalità, che non ha speso nessuna parola sulle morti di 13 detenuti durante le rivolte del marzo 2020.
A ogni modo, le numerose deleghe al governo non promettono nulla di buono e le sole prescrizioni vincolanti approvate non produrranno alcun effetto rilevante se non accompagnate da una revisione strutturale dell’ordinamento della giustizia nel suo complesso. Ciò che è da rivedere è il modo stesso di concepire la giustizia penale e l’impianto criminogeno, che si è ampliato a dismisura rincorrendo un ideale di sicurezza vacua, a discapito in particolare delle fasce più deboli della popolazione. Se non si provvede a un potenziamento di personale e risorse degli apparati non si potrà attuare neppure quanto previsto. Se le carceri non vengono svuotate con provvedimenti incisivi, l’umanità e la giustizia rimarranno mere enunciazioni di principio. Se non saremo in grado di aprire un dibattito serio sul nostro modo di farci giustizia, continueremo a dimostrare il nostro grado di inciviltà.