Da mesi, in materia di giustizia non si fa che parlare della Riforma Cartabia. Si tratta del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150 attuativo della l. 134/2021 che prevede un intervento organico sulla disciplina processual-penalistica e su quella penalistica, con effetti, anche, sul delicato tema della violenza sulle donne.
La riforma regolamenta per la prima volta nel nostro ordinamento la giustizia riparativa. Con questo termine si indica ogni programma che consente alla vittima, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore.
In realtà, la giustizia riparativa fa già implicitamente parte dei principi ispiratori di questo ordinamento che non considera la pena come uno strumento punitivo, ma riabilitativo. Negli anni Ottanta infatti è stato scelto un modello detentivo che puntasse principalmente alla rieducazione e alla risocializzazione e non alla mera custodia. La giustizia riparativa risponde, dunque, proprio a un’esigenza di rieducazione: vengono proposti, infatti, dei percorsi comuni tra imputato e parti offese che mirino al superamento del conflitto e al ravvedimento di chi ha commesso il reato. Nel caso della violenza di genere, i programmi rieducativi dovranno essere costruiti per portare gli uomini maltrattanti a un ravvedimento.
L’accesso della parte offesa ai programmi sopracitati è sempre volontario e il decreto garantisce i diritti difensivi, la confidenzialità e la riservatezza, i diritti informativi, l’assistenza linguistica, disegnando uno specifico statuto dichiarativo del mediatore e fissando precisi limiti di utilizzabilità processuale per gli esiti dei programmi.
Lo scopo della giustizia riparativa, infatti, non è costringere una vittima di violenza ad affrontare il suo aguzzino, o forzare una riconciliazione emotiva tra partner dopo una situazione di abuso. Quando si parla di “riconciliazione”, si intende un modo per la vittima per riuscire a elaborare il proprio trauma grazie al supporto psicologico di un mediatore.
Molte donne non denunciano perché temono di togliere ai propri figli la figura paterna o perché temono ulteriori ripercussioni una volta che la reclusione del partner sarà terminata. Nel caso in cui l’uomo maltrattante non comprenda il suo errore in assenza di percorsi riabilitativi, il suo odio e il suo risentimento si andranno ad amplificare, rimettendo in pericolo la vittima e tutto il nucleo familiare.
Se la parte offesa decide di sperimentare un percorso di giustizia riparativa, otterrà un ruolo preminente nella scelta da parte del giudicante di dare una seconda possibilità a chi ha commesso il reato. Maggiore sarà la riparazione del danno e la riconciliazione, maggiori saranno i benefici applicabili all’imputato. Infatti, l’art. 62 del Codice Penale introduce come circostanza attenuante comune quella di aver partecipato a un programma di giustizia riparativa assieme alla vittima del reato e di averlo concluso con un esito positivo. Ugualmente, l’art. 131 bis prevede la possibilità di un’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ancorandola all’esito positivo di un percorso riparativo.
Questi programmi diventano l’unico mezzo con cui chi ha commesso atti persecutori o violenze sessuali può ottenere la concessione di attenuanti generiche (e nei casi più lievi, della pena sospesa). Stiamo parlando dell’essenza stessa dei concetti di rieducazione e riabilitazione, per troppo tempo ignorati nel nostro sistema giudiziario.
La giustizia riparativa è stata fortemente rivendicata dalla Cartabia, anche in chiave culturale: l’ex Ministra ha contrapposto la giustizia delle Erinni, prigioniera del risentimento e dell’istinto vendicativo, e la giustizia di Atena, ispirata dalle Eumenidi, basata sull’argomentare, sul ragionare, sul ritrovamento di un proprio equilibrio. Tra il dire e il fare, però, c’è sempre di mezzo il mare. Al momento infatti non esistono centri né associazioni che siano in grado di occuparsi degli uomini maltrattanti accompagnandoli in un percorso di ravvedimento al fianco della vittima.
Il ruolo del mediatore è fondamentale nell’esperimento della giustizia riparativa: deve essere in grado (nella massima esplicazione della libertà dei partecipanti e nella massima confidenzialità) di lavorare all’insegna della legge avvicinando le parti, incontrando i traumi, ponendosi al centro del conflitto ed evitando pericoli concreti per i partecipanti, di cui va sempre tutelata l’incolumità.
Data la complessità di questo ruolo è necessaria una formazione specifica, ma non ci sono ancora informazioni né circolari esplicative su questo aspetto. Si tratta di un vuoto a dir poco preoccupante: se gli operatori del sociale e gli operatori del diritto non verranno formati in maniera adeguata, l’istituto della giustizia riparativa rischierà di trasformarsi in un’ulteriore occasione di trauma per le vittime e regressione per i partner maltrattanti.