21 aprile 1943. Napoli. Una folla, che aumentava di minuto in minuto, si dirigeva verso la Chiesa dello Spirito Santo, in via Toledo. Il regime fascista aveva tentato di arginare in ogni modo quella marea di gente, disponendo tram di traverso lungo il tragitto. Nulla da fare. Imperterrita, la folla avanzava e si gonfiava, cosa impensabile per quei tempi di guerra, allorché i funerali andavano deserti. Il giorno prima, a Sorrento, era morto Roberto Bracco, famoso scrittore e drammaturgo, fiero avversario del fascismo. Adesso egli rientrava nella sua amatissima Napoli, dove tutti sapevano chi era.
L’occhiuta polizia di regime, all’ingresso della chiesa, copiava i nomi apposti sul registro delle firme, ovvero il gotha dell’antifascismo locale. Al grande amico sempre vivo, scriveva sul quaderno Raffaele Viviani, che negli anni Trenta aveva sfidato la censura fascista e messo in scena il dramma bracchiano Maschere. E poi le firme di Renato Caccioppoli, Mario Palermo, Paolo Ricci, Vincenzino La Rocca e tanti altri.
Si può ben affermare che, dopo gli scioperi operai di Torino del marzo dello stesso anno, il funerale di Bracco fu la prima grande manifestazione antifascista e popolare sul suolo italiano. Ed è anche la risposta a tutti quei detrattori e negazionisti che hanno sostenuto che le Quattro Giornate di Napoli, svoltesi a fine settembre 1943, fossero solo rabbia di popolo causata dalla miseria e dalla disperazione per la guerra e insurrezione di scugnizzi. Mentre è certificato che in città c’era un antifascismo organizzato, con il ruolo importante di Bracco e Croce e che si andava a collegare con le maestranze operaie cittadine.
Nel campo artistico, per Bracco si era verificato un percorso al contrario: dai trionfi dei suoi drammi e commedie sui palcoscenici d’Italia e su quelli dei trentasei paesi del mondo dove era stato rappresentato, autore teatrale italiano più conosciuto all’estero, fino alla parabola discendente a cui lo aveva condannato il fascismo. È bene ricordare che il drammaturgo napoletano che fu il vero, primo innovatore del teatro nostrano, dopo l’indigestione di pochade e del cosiddetto teatro borghese, anticipò di quasi vent’anni il francese teatro dell’inespresso o del silenzio, così ben raffigurato nel suo capolavoro scenico Il piccolo santo. Il tutto nel turbinio di una Belle Époque, che unitamente a Parigi e Vienna, aveva come indiscussa capitale Napoli, in quegli anni sede di un fervore artistico ineguagliabile.
Ma lo sguardo dolente di Bracco si posava spesso, nella sue opere, sugli ultimi, dando vita anche a introspezioni di tipo freudiano inusitate per l’epoca. Femminista ante litteram, delle donne intuiva e denunciava il dramma della loro emarginazione sociale che ne soffocava la grande valenza e la forza insita. Le attrici di prosa più famose del tempo come Eleonora Duse, le due Gramatiche, Tina Di Lorenzo e innumerevoli altre resero sublimi le tante protagoniste femminili dei suoi lavori. Bracco aveva quindi già innata la predisposizione alla ricerca di un’eguaglianza sociale, ma è la Prima guerra mondiale, con tutti i suoi orrori e lutti, a delineare ancora di più le sue convinzioni più profonde. Un suo convincimento principale fu il disdegno verso la guerra e unitamente a Benedetto Croce, pur con motivazioni diverse, firmò la Declaration de l’endependance de l’ésprit, manifesto pacifista del 1919 del Premio Nobel francese Romain Rolland, a cui aderirono i più importanti intellettuali europei, tra cui Einstein, Bertrand Russell e altri.
Dall’antimilitarismo all’antifascismo il passo fu breve. Nel 1924 Bracco si candidò al Parlamento nella lista di opposizione di Giovanni Amendola. Fu il secondo eletto dell’Italia meridionale e tra coloro che parteciparono alla stesura del Manifesto antifascista voluto da Croce. Nel frattempo, indomito e già anziano, sfidò a duello due esponenti fascisti: il barone Ricciardi e il giornalista Telesio Interlandi, in seguito tristemente noto come direttore della rivista La difesa della razza. Bracco affermava di non avere alcuna paura dei fascisti, che pure avevano tentato di assassinarlo per ben due volte, che avevano assalito e distrutto la sua casa di via Santa Teresella degli Spagnoli e che quotidianamente lo ingiuriavano dalle colonne dei loro giornali. Ma il drammaturgo candidamente affermava di avere paura delle donne fasciste, in quanto incarnavano una distorta femminilità, tale da annullare tutte le qualità che egli riconosceva all’altro sesso.
È ritornato d’attualità in questi anni il mancato Nobel a Bracco nel 1926 per il veto posto dal regime fascista: Questo artista non ci rappresenta. È un antitaliano. Il drammaturgo napoletano era stato segnalato da un gruppo di intellettuali scandinavi che ne conoscevano e ne apprezzavano le opere. Un componente dell’Accademia svedese era venuto a Napoli per conoscerlo. Una persecuzione fascista in piena regola durata quasi vent’anni, senza mai che si allentasse la presa e che lo escluse da ogni attività artistica. E questa fu per lui, ingegno poliedrico, la condanna più dura. Infine la crudele ironia di morire tre mesi prima di quel 25 luglio 1943 che segnò la fine del regime.
Nell’immediato dopoguerra sarebbe stato naturale restituire a Bracco il ruolo che gli doveva essere riservato nel mondo dell’arte. Così non è avvenuto neanche negli anni a seguire e alla ritrovata democrazia nata dalla guerra di liberazione, purtroppo, non è seguita una necessaria “rivoluzione culturale” capace di defascistizzare l’Italia. Infatti, accadde che l’intero armamento dello Stato fascista, con poche e non significative epurazioni, trasmigrasse armi e bagagli nella ritrovata democrazia. In simile contesto era impossibile un nuovo ruolo per il drammaturgo. Tanto più che egli rappresentava la cattiva coscienza di quegli intellettuali, proni al regime e sempre postulanti presso Mussolini per ricevere onori e prebende, diventati di botto antifascisti.
Il maggiore omaggio per Bracco sarebbe oggi rappresentare le sue opere, molte di un’attualità impressionante. Per fortuna, egli non è stato abbandonato dagli studiosi e il suo ricco archivio è presso l’Istituto Campano per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea Vera Lombardi, a disposizione della collettività.
Chi scrive non sa se il giusto lustro prima o poi verrà ridato a Roberto Bracco e agli altri grandi italiani caduti nell’oblio. Comunque non ci si riesce a liberare della sensazione di un’Italia immemore e ingrata verso i suoi figli migliori. Ci si auspica che alla fine, l’ultima cosa espressa, sia solo un eccesso di pessimismo e che si realizzino invece tutte le condizioni per le buone sorti del sapere, della verità e della libertà. Bracco non debordò mai da questo intento, anche a costo di sacrificare la sua arte.
Contributo a cura di Aurelia del Vecchio, nipote di Roberto Bracco