Pochi giorni fa è giunta la notizia dell’ennesimo rinnovo della detenzione preventiva di Patrick Zaki, il giovane detenuto in Egitto da ormai quasi un anno, costretto a una tortura che sembra non avere fine. Abbiamo intervistato al riguardo Riccardo Noury, portavoce nazionale di Amnesty International Italia, il quale ci ha offerto il suo punto di vista sulla vicenda, ma non solo.
Dottor Noury, Le chiederei innanzitutto un parere su quanto abbiamo appreso di recente in merito alla sorte di Patrick Zaki e, in particolare, sulle motivazioni che lo hanno trascinato in tale supplizio, al di là delle labili motivazioni ufficiali che vengono diffuse.
«La detenzione preventiva è la prassi con cui il sistema giudiziario egiziano punisce dissidenti, attivisti, ricercatori, giornalisti, oppositori pacifici, detenendoli anche due anni, senza processo, sulla base di accuse che sono fabbricate e che soprattutto non possono essere contestate perché non c’è modo di controbattere per la difesa. Patrick è a metà di questo percorso e speriamo che non si prolunghi perché dodici mesi trascorsi senza processo in detenzione arbitraria e illegale, in condizioni di salute pessime e in condizioni detentive deplorevoli, dovrebbero bastare anche per il più accanito dei sistemi giudiziari».
Quali sono le condizioni fisiche e psicologiche di Patrick al momento? Quanto ha risentito dell’ultimo anno di detenzione?
«Dal punto di vista delle condizioni fisiche, Patrick è asmatico e nella prigione di Tora, dove è detenuto, il COVID è entrato e ha provocato vittime, e lui risulta un soggetto particolarmente a rischio di contagio. Ha riferito di dormire per terra, senza un materasso, e quindi ha dolori forti alla schiena, ma questo non basta perché c’è un quadro di salute mentale sempre più preoccupante. Manda messaggi in cui non c’è quasi più speranza, c’è molto rimpianto, nostalgia. Ha la mente sempre a Bologna, al corso di cui sta perdendo il secondo anno, agli amici, ai colleghi. Si tratta di una situazione che non è ulteriormente sopportabile».
Qual è il ruolo dell’Italia in questa vicenda? In particolare, cosa ha fatto e cosa invece avrebbe dovuto fare?
«Partendo da quello che ha fatto, l’Italia ha detto a più riprese e con mobilitazioni costanti, adesioni, conferimenti di cittadinanza onoraria e appelli, in maniera molto chiara che quella di Patrick è anche una storia italiana. È la storia di un ragazzo che si è lasciato alle spalle il Paese d’origine e un sistema repressivo che non gli consentiva di fare le sue attività di ricerche, si è dato un futuro non solo accademico, ma di vita, in Italia, nella città di Bologna, e questo spiega perché è una storia anche italiana. Però, almeno nei primi dieci mesi, il comportamento dell’Italia dal punto di vista del Governo e della Farnesina è stato quello di chi non ha capito quanto fosse urgente la situazione. Si sono monitorate, quando è stato possibile, le udienze, però questa strategia di sperare che l’udienza prossima vada bene non tiene conto di quanto la situazione sia urgente per i motivi di cui parlavo prima. A metà dicembre il Ministro degli Esteri Di Maio proprio a Bologna si è impegnato a riportare Patrick al più presto dalla sua famiglia, però non stiamo vedendo i risultati di questo impegno».
L’Italia intrattiene con l’Egitto dei rapporti di carattere economico e commerciale che vanno molto al di là della vicenda di Patrick. Quanto pesano? L’Italia non avrebbe dovuto imparare da quanto accaduto a Giulio Regeni?
«Il punto è questo. Tali rapporti, che sono stati sempre ottimi, salvo il periodo dall’aprile 2016 all’agosto 2017, quando è stato richiamato l’ambasciatore, sono stati sempre improntati a rafforzare le relazioni, a proseguire accordi, a blandire l’interlocutore. Questa strategia non ha funzionato e il sistema di relazioni commerciali e politiche fa sì che la vicenda di Patrick vada al di là o, meglio, sia al di qua, nel senso che ci sono cose più importanti e la storia degli ultimi dieci anni dei rapporti Italia-Egitto lo conferma. La strategia di sperare di ottenere qualche risultato con un costo politico zero è stata portata avanti per cinque anni per la vicenda di Giulio Regeni e viene portata avanti da dodici mesi anche per quanto riguarda Patrick».
Mi allontanerei un attimo dalla vicenda di Patrick per chiederLe di carcere. Pochi giorni fa è arrivata una pronuncia storica, la prima condanna per il reato di tortura che ci dimostra non solo quanto questo reato fosse necessario – nonostante sia stato fortemente ostacolato da più parti – ma anche che gli istituti di pena rischiano di diventare dei non luoghi, che non occupano il dibattito pubblico, in cui c’è il rischio di una regressione quotidiana nel campo dei diritti. Come crede si debba agire al riguardo?
«La valutazione che Lei fa è del tutto corretta e l’ha dimostrato nella maniera più evidente la pandemia, che si è infiltrata in luoghi di assembramento involontari, approfittando della deplorevole condizione igienico-sanitaria e del sovraffollamento, e questi sono i due temi storici che riguardano le carceri italiane. Quindi, le misure che andrebbero intraprese sono quelle di decongestionare, riprendendo tutte quelle soluzioni alternative che a mano a mano non sono più state utilizzate in questi ultimi anni utilizzando, inoltre, il reato di tortura che ha dimostrato di essere utile per punire tutti i casi che rientrano in tale fattispecie. Le inchieste sono diverse. Mi auspico che la presenza di questo reato e le sentenze che, ci auguriamo, verranno emesse oltre a quella di Ferrara, abbiano anche la funzione di prevenzione».
La pandemia ha fatto emergere le criticità del sistema penitenziario, dicevamo. Come ha impattato, invece, sul terreno dei diritti, nel mondo e in Italia?
«Nel mondo è indubbio che ci sia stata una regressione in questo ambito: Amnesty International ha verificato che in sessanta Paesi la pandemia è stata utilizzata per nuovi giri di vite e per l’adozione di leggi repressive. Abbiamo riscontrato in molti Stati l’uccisione di persone che manifestavano in situazioni in cui non era possibile per via delle misure di contrasto, ma queste ultime e il lockdown sono state utilizzate per usare eccessivamente la forza, spesso nei confronti di specifici gruppi come gli oppositori politici. Ci sono stati arresti di giornalisti, come se il nemico fosse l’informazione libera piuttosto che il coronavirus. Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo monitorato quanto successo soprattutto durante il primo lockdown. In generale si può dire che tutti questi stati d’emergenza procurano una certa fragilità dei diritti, ma salvo casi specifici – penso a una manifestazione a Milano del 25 aprile sgomberata con forza eccessiva o allo zelo di qualche pubblico ufficiale che ha multato alcune persone che non erano a casa ma per il fatto che non avevano una casa – direi che le misure adottate sono state congrue e proporzionate».
Quali sono gli ambiti su cui secondo Lei sarebbe più urgente intervenire in questo momento?
«Non c’è dubbio che il tema del 2020 è quello del diritto alla salute. Un diritto negato, fatto a pezzi, che è prioritario anche nel 2021. Innanzitutto, nella necessità di un vaccino popolare e per tutti. Oggi abbiamo una situazione che si può definire nazionalismo vaccinario, per cui i Paesi ricchi si sono accaparrati scorte fino a vaccinare da tre a cinque volte la propria popolazione, mentre i sessantasette Paesi più poveri potrebbero vaccinare nel 2021 una persona su dieci, concludendo il processo di immunizzazione dei propri cittadini alla fine del 2024 se i meccanismi di solidarietà come il COVAX promosso dall’OMS continueranno. Ma questo è tutto da vedere».