Nel quarto episodio della serie Baby, discutibile prodotto di Netflix Italia ispirato alle vicende dell’inchiesta sulle babysquillo del quartiere Parioli scoppiata tra il 2013 e 2014, c’è una scena che spicca su tutte: una delle due protagoniste è in auto, sta per andare a un appuntamento con un cliente e prima di scendere dall’auto si apre con il suo protettore raccontandogli di essere stata vittima di revenge porn. Dice di essersi innamorata di un suo coetaneo e che questo, conclusasi la relazione, abbia diffuso un video realizzato durante un momento di intimità, destinato a rimanere privato e invece condiviso con tutta la superficialità e la stupidità di chi vuol fare del male gratuito a qualcun altro: «Tutti facciamo sesso ma solo io sono chiamata il secchiello per quello che ho fatto. Ora mi sento un rifiuto vivente». Al di là del tono senz’altro romanzato che connota tutta la scena e la serie – da vedere sicuramente più per noia che per dare un reale apporto costruttivo al proprio bagaglio culturale –, questa dichiarazione potrebbe essere di qualsiasi persona abbia subito la gogna mediatica provocata dalla diffusione senza consenso di scene intime.
Ricordiamo tutti la storia di Tiziana Cantone, la trentunenne suicidatasi presso l’abitazione della sua famiglia a Mugnano, vicino Napoli, nel settembre 2016 dopo diciassette mesi di slut shaming, vessazioni di ogni sorta, in seguito alla diffusione di video che la ritraevano in intimità con un uomo. Ancora oggi, la madre chiede giustizia con una causa contro l’ex fidanzato di Tiziana, Sergio Di Palo, la quale slitta di udienza in udienza (la prossima ci sarà il 12 febbraio). Non essendoci ancora una legge che tuteli le vittime di revenge porn, fenomeno che colpisce maggiormente le donne con la casistica di una su dieci, le accuse possono andare dalla calunnia all’accesso abusivo al sistema informatico, ma urgono norme e tutele maggiori per snellire le cause giudiziarie e così spingere le vittime a denunciare, passo difficile soprattutto se resta fine a se stesso, senza conseguenze reali per il denunciato. Ma non solo: se quello della giovane campana è stato un gesto fortunatamente isolato, tutte le vittime subiscono effetti sulla propria salute psicofisica che sfociano in sindromi depressive, attacchi d’ansia, gesti e pensieri autodistruttivi, in alcuni casi tentati suicidi. Ci si sente male soprattutto perché dietro tutto ciò c’è la fiducia tradita, un senso di delusione verso se stessi per aver acconsentito a essere ritratti in determinate situazioni anche se mai si sarebbero diffuse quelle immagini, ci si sente totalmente responsabili anche se non lo si è davvero.
Il revenge porn, letteralmente porno per vendetta/ripicca, è trasversale, tanto da riguardare anche personaggi famosi: quando si tratta di intimità non c’è status che tenga, siamo tutti vulnerabili. Per questo, anche grazie alla sensibilizzazione da parte delle vittime, in tredici Stati degli USA c’è una legislazione contro suddetto tipo di abusi, anche se ogni Stato ha una sua variante differente e non vi è una legge federale univoca. In Italia, intanto, come spesso accade a difesa di chi subisce violenze, siamo in ritardo. Fortunatamente, però, anche nel Paese dove una donna su cinque è vittima di molestie online con commenti sessisti gratuiti che vanno al di là delle proprie opinioni o azioni ma si concentrano soltanto sul fatto che la ricevente appartenga al genere femminile e per questo inferiore o meno degna di esprimere la propria opinione, qualcosa si sta muovendo.
Una su tutte è la petizione #intimitàviolata, promossa dall’associazione Bossy, quella de I Sentinelli di Milano e Insieme in rete che, grazie all’interessamento particolare di Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati durante la scorsa legislatura, da sempre impegnata sul fronte dei diritti umani, sta raccogliendo firme per creare i presupposti di una proposta di legge che tuteli le vittime e punisca adeguatamente coloro che commettono questo reato, ancora non considerato tale, associato dai più al cyberbullismo ma ben differente da esso. Quando e se la proposta e successivamente la legge arriverà, la strada da fare sarà ancora molta: alla base, soprattutto per le nuove generazioni che sin dalla tenera età approcciano con superficialità a un’intimità che include l’uso di foto e video, esponendosi maggiormente alla diffusione non voluta di materiale privato, c’è la mancanza di percorsi educativi all’affettività e alla sessualità. Una norma non basta, né tantomeno i provvedimenti che Facebook, il primo social network su cui il revenge porn colpisce di più, sta sperimentando per difendersi da cause di complicità nel reato. Ancora una volta a salvarci sarà la conoscenza. In attesa che qualcuno si muova e apra gli occhi anche a livello istituzionale, possiamo dare il nostro contributo firmando per dimostrare che non è né la tecnologia n internet a essere cattivo ma l’uso scorretto e approssimativo che se ne fa.
Link petizione: https://www.change.org/p/intimitaviolata-chiediamo-una-legge-contro-il-revenge-porn-roberto-fico-pres-casellati-montecitorio-senatostampa