Che fine ha fatto l’utopia? Dove è finita l’idea di poter arrivare in un tempo e in un luogo dove sia possibile sostituire il mondo e la vita così come sono state e come sono con un altro pianeta e un’esistenza che siano come vorremmo che fossero? Sono queste le domande di fondo a cui risponde Retrotopia, l’ultimo libro del sociologo Zygmunt Bauman, scomparso nel mese di gennaio del 2017.
Il grande pensatore polacco – acuto descrittore della società liquida, dove i legami interpersonali e intrasocietari non riescono più a cristallizzarsi in forme solide e durature come nel passato – già aveva parlato e scritto delle trasformazioni del sogno utopico avvenute nel mondo moderno.
Nella sua opera Modus vivendi, ad esempio, aveva sostenuto che questa idea quasi non esistesse prima dei tempi odierni e ci aveva raccontato la nascita e lo sviluppo dello sguardo utopico, servendosi delle metafore del guardiacaccia, del giardiniere e del cacciatore.
L’atteggiamento e la pratica degli esseri umani nell’età premoderna, nei confronti del mondo, era paragonabile a quello del guardacaccia, impegnato a difendere il territorio, cercando di preservare l’equilibrio tra uomo e ambiente naturale.
La concezione dei rapporti con il sistema-mondo e le conseguenti pratiche dell’epoca moderna, invece, sono state quelle del giardiniere, che cercava di mettere ordine in maniera razionale con il suo agire tecnico.
È proprio lui, in effetti, aveva sottolineato Bauman, che ha iniziato a fabbricare le utopie dell’uomo contemporaneo.
Nella modernità più avanzata, lo sguardo utopico si è perso con l’avvento del cacciatore, che non è interessato né all’equilibrio tra uomo e natura né al progetto razionale e comunitario. Questa dominante figura umana e sociale persegue soltanto lo scopo di depredare l’ambiente naturale e comunitario, a vantaggio del suo beneficio individuale e immediato.
Nei tempi e nei luoghi del mondo attuale, non c’è più posto per l’utopia. Il mito del progresso storico, lineare e irrefrenabile, che ci avrebbe portato in un mondo migliore, è svanito dinanzi al reale e inarrestabile processo dell’individualizzazione e alle ricorrenti crisi economiche, sociali e ambientali.
L’individuo è libero, al tempo della globalizzazione economica e della comunicazione digitale, ma nel senso negativo della solitudine e di una esistenza vissuta in un continuo stato di ansia per la possibile perdita del suo valore di mercato e della conseguente scarsità dei beni materiali. L’utopia ha cambiato rotta, quindi, e si è trasformata in retrotopia.
Il futuro è percepito non più come una meta a cui approdare ma come una minaccia da cui fuggire. Si ritorna a pensare e a guardare al passato, come forse non è mai stato, ma che desideriamo in termini di nostalgia di una esistenza protetta dall’appartenenza a una collettività e a un’entità statuale che, nel bene e nel male, non ci lasciavano mai da soli.
Nel libro postumo, Bauman ha scritto: Cinquecento anni dopo che Tommaso Moro diede il nome di Utopia al millenario sogno umano di tornare in paradiso o di instaurare il Cielo sulla Terra, l’ennesima triade hegeliana formata da una doppia negazione si avvia a completare il suo giro.
Nel tempo della retrotopia, una folla solitaria di uomini e donne vive nelle anonime megalopoli, che si moltiplicano nelle diverse aree del pianeta, e non agisce in vista di uno stile di vita collettivo nel rispetto della natura, ma soltanto alla disperata ricerca della sopravvivenza individuale.