Contributo e foto a cura di Irene Cocco
Come stai?
Ho la vita e la morte che mi attraversano la mente e l’anima. Ho volti impressi che si rincorrono, storie lontane tatuate sotto pelle. Cicatrici che si mescolano a ferite aperte. Sogni, speranze e, forse, fede. Ho l’odore di pesce marcio e di pelle scura salata e sudata. Sete, fame, lacrime. Dolore sordo e pazzia. Abiti impregnati di tè e sudore. Pelle nera pallida dal gelo. Occhi vuoti. Occhi che sanno tutto e che vogliono tutto. Acqua, da bere, acqua di mare. Acqua. Non sento nulla e sento tutto. Il cuore si scioglie.
Atterro sul mare, solo un lembo di terra brulla, già respiro. Le contrazioni del mio stomaco si placano solo dopo un’agognata carbonara notturna: Per gli sbarchi sei libera di non venire, devi sentirti tranquilla e libera di decidere, soprattutto di notte. No no no chiamami, svegliami eh, per favore! Ci tengo! Sono qui anche per questo. Gli occhi sbarrati, adrenalina. Nulla.
Suona Alborosie sul mio telefono: Irene preparati per quello che sai.
Metto su tre pentoloni d’acqua a bollire. Il tè. È un rito apparentemente banale, si fa con la cannella e i chiodi di garofano perché a loro piace speziato, e tanto zucchero. Dopo tre giorni in mare probabilmente ne avranno bisogno. Probabilmente.
Ancora non comprendo a pieno il senso di questo rituale, sono un’automa, metto bustine, verso zucchero, preparo i termos, il cuore mi esplode, voglio fare le cose bene perché ci tengo, forse voglio dimostrare che c’è cuore.
Carichiamo l’auto, insieme agli operatori di Mediterranean Hope. Già il nome ti dà fiato, dà un senso di sguardo che va oltre, oltre le profondità del cimitero d’acqua salata, antica e profonda. Loro sono sorridenti ma fermi, sono abituati, la mia è ammirazione, smania di assorbire le loro capacità, semplicemente imparare.
Lei è Paola. Stringo una mano salda, divoro il suo sorriso, ne ho bisogno. La osservo indaffarata versare la bevanda calda, dallo sguardo capisco subito la statura morale di una donna che non dimenticherò mai.
Mi tremano le mani, le fermo o almeno credo. Si incontrano con altre che tremano molto di più, tese per quel bicchiere bollente di cui ora comprendo a pieno tutto il senso.
Il molo è stretto, pieno di ciottoli, piedi scalzi, incerti, feriti. La fine provvisoria di un viaggio fatto di sabbia, urina, sangue, lividi, mare, meglio annegare che morire di botte in Libia. Welcome, my friend, some tea? Thank you sister. Caccio dentro le lacrime e sorrido. Quel sorella è tutto l’amore che il mondo nega. Mani tese a quell’acqua che per noi è così scontata, senza sapore, di fronte ho chi ci trova il gusto della vita. Mi sento in colpa per questo, per il sapore che non sento. Perché sono dall’altra parte, da quella giusta? Quale diritto ho, quale beneficio mi è concesso e perché? Odio questo privilegio che svuota.
Li attende un bus, dritto e indifferente verso un hotspot ancora più indifferente. Attende chi? Mohammed, Diaby, Juliette, Radawan, Nestor, cinquanta, cento, centocinquanta, duecento, duecentocinquanta. A quante vite prostrarsi a chiedere scusa? Quante volte chiedere? A seconda dei giorni di tortura? Quanto dolore può sopportare un uomo prima di crollare, morire dentro, quanta dignità in quel grazie. Grazie a te, my friend, grazie per avermi mostrato l’umanità, quella sopravvissuta, quella che ha ancora la forza, la rabbia per beffare la morte. Ti hanno venduto ignari del tuo valore.
Non dormo, non piango. L’adrenalina scorre per diversi giorni. Non ho ancora realizzato l’assurdità della situazione.
Così inizia la mia formazione per un qualcosa che non riuscirò probabilmente mai a capire. Stento a capire la non umanità, mi stupisce e mi ferisce, non ho tempo di metabolizzare. Parte la rassegna stampa, un mondo di domande mal riposte. Inizio a capire. Ho sempre avuto le mie convinzioni, i moti interiori, la passione per celebrare un mondo senza frontiere, ma come una bimba ai primi passi cado, crollo di fronte a una realtà ancora più amara. Quanto plasma la disinformazione? Mi immergo in un mondo a cui sento di non appartenere. Rabbia mista a rassegnazione. Non devo lasciarle spazio.
Stasera riunione Forum Lampedusa Solidale. Ci sono! Sono curiosa, affamata, vorrei i superpoteri. La casa è tipica dei paesi del Sud, mi ricorda la mia Sardegna e le case dei miei parenti, vengo accolta da una donna dal sorriso caldo che mi mette subito a mio agio. Ascolto, non mi sento all’altezza di parlare, donne e uomini preparano qualcosa di straordinario una “cena solidale” per finanziare una ONG che fa salvataggi in mare, un’associazione attiva in luoghi colpiti dal terremoto e i pescatori lampedusani colpiti dal Marrobbio. Ognuno di loro pare il personaggio di un film, vengono offerte mandorle e noci, benvenuta in Sicilia! Arriva Maurizietto, disinvolto, dialetto stretto, mi presento, lui mi squadra studiandomi e immagino stia pensando speriamo chi chissa sia arripigghiata!. Mi fa sorridere il solo vederlo, occhi scaltri e profondi, stretta decisa e sorriso smagliante, un uomo concreto, mani e cuore come pochi. Come volontaria per Mediterranean Hope dovrò collaborare, ne sono orgogliosa, ma speriamo non mi facciano cucinare. Ecco appunto: le nostre verdure fantasia sono state tra le più apprezzate! Pilla, Lillo, Paola, Giovanni, Carlotta e Don Carmelo, conosco loro in questa riunione e mi rendo conto di come l’umanità, quella più autentica, esista. I ragazzi verranno? Pagheremo noi per loro logicamente, è necessario specificarlo? Qualche volta sì, purtroppo.
Solo dopo, con il cuore in subbuglio, mi rendo conto che loro sono gli abiti, i croissant caldi, le cene di Natale. Braccia, cuore e anima dell’isola. Il Forum è l’acqua fresca prima che le mani si tendano e gli occhi implorino, è il tè caldo mentre i corpi tremano, è i teli isotermici sui corpi gelidi e fradici, è i sorrisi, i welcome my friends, le chiacchiere, le risate, le rassicurazioni, i consigli, i good luck e i bonne chance, è i saluti calorosi mentre il pullman parte verso l’hotspot, è amore nel senso più alto del termine, è pazienza, è coraggio, è voglia di non esistere più per dare un senso alla sua esistenza.
Domenica 14 maggio: fermento, preparativi, tensione, emozione.
Le ragazze dell’alberghiero, camicia bianca e papillon, si preparano a servire, le tavolate si riempiono delle prelibatezze degli avventori lampedusani, tutti hanno donato qualcosa per una buona causa: prima chi ha bisogno, recita il volantino. Nessuno escluso.
Iniziano ad arrivare i primi isolani e i ragazzi dall’hotspot, tutti in fila per la solidarietà. Parte la musica che si mescola alle risate e al profumo del cibo. Inizio a scattare maldestramente, ma non posso non rendere eterno questo momento, così come lo sarà nella mia anima. Mi fermo un attimo per goderne, Gio e io ci guardiamo increduli, sorridiamo e tra lo sgorgare delle lacrime ci abbracciamo senza parlare. È tutto vero, è tutto troppo bello! Senegal, Egitto, Costa d’Avorio, Pakistan, Camerun, Siria, Lampedusa. C’è chi prova a imparare il liscio imitando le signore lanciatesi nella danza. Una festa di paese, quelle che ho sempre fuggito nella mia terra, ora mi sembra un evento mondiale, ballo anche io dove non ci sono frontiere, confini, distinzioni. Osservo i ragazzi: tanti di quindici, sedici, diciassette anni sembrano in trance dalla gioia, penso a quanto la bellezza di questo momento possa placare il pulsare del dolore sordo che si portano dentro. Penso a quanto tempo abbiano vissuto senza divertirsi prima di adesso e penso a quanto ancora ne passerà prima che riaccada. Un miracolo. Un miracolo umano. Despacito e Occidentali’s Karma si ballano come dopo due o tre cocktail, l’euforia della solidarietà è meglio di qualsiasi dose d’alcool.
Porto M.
Emme sta per? Emme sta per Migranti Memoria Mediterraneo Militarizzazione e Munnezza. Capisco già tutto. Un tripudio dei colori dei legni delle barche, barche morte, barche naufragate, ma che come gli esseri umani vivono nell’altrove di qualcuno. A Porto M. si continua a dibattere, a lottare, a progettare, a comunicare. Era una grotta mi dicono, l’odore è inconfondibile, gli oggetti di uomini e donne naufragate inseguendo la vita raccontano storie, la storia di mia nonna, di mio nonno, di mia madre, di mio padre, di mio fratello, delle mie sorelline. Cuciniamo nelle stesse pentole, vestiamo gli stessi abiti, scriviamo gli stessi sogni sulla stessa carta, ci muove lo stesso moto, la stessa anima, gli stessi desideri, gli stessi valori, non prenderemmo mai il mare se il mare non fosse più sicuro delle nostre case. Non lasceremmo mai le nostre case e il sangue del nostro sangue se non per salvarlo e salvarci. Il collettivo che anima questo luogo quasi mistico si chiama Askavusa, a piedi scalzi. A piedi scalzi si lotta per Lampedusa per liberarla da chi se la vuole mangiare. Per proteggerla, tutelarla, valorizzarla. Senza retorica, ma con passione e voglia di verità e giustizia.
Arrivo i primi di maggio. L’isola è semideserta, calda di scirocco. In pochi minuti raggiungo tutto, mi sento a casa, anzi non mi sono mai sentita a casa come qua. Poco più di venti chilometri quadrati, riempio lo sguardo del viola del timo e gli asfodeli che ambiscono al cielo tenacemente mi incantano. Mi attira un gruppo di ragazzi che, nonostante il sole, sosta su una panchina di fronte all’Archivio storico, una giovane gli insegna italiano. Entro.
Musica classica in sottofondo, qualcuno utilizza internet, altri imparano la lingua riconoscendo le immagini in tessere appositamente create da Nino, presidente dell’Associazione Archivio Storico, e papà Nino come lo chiamano i tanti che transitano sull’isola e trovano in questo luogo magico parole di conforto, supporto morale e pratico, ancora umanità. Condividere, appassionarsi, includere. Papà Nino è un uomo di grande cultura, empatico e profondo che raccoglie storie e le preserva, foto e racconti in un’atmosfera rilassata e magica. I ragazzi trovano da lui un’oasi calda in inverno e fresca d’estate, trovano in lui un porto sicuro a cui approdare anche una volta partiti dall’isola. Lui li segue tutti, anche dopo, con l’intento di supportarli linguisticamente, e non solo, nella nuova giungla che si troveranno ad attraversare.
N. e gli altri.
L’internet point è quasi un delirio, quasi tutti per la prima volta dovranno connettersi per comunicare, spesso dopo mesi, con le proprie famiglie, con gli amici, con pezzi di sé lasciati troppo lontano. Riuscire a riattivare o a creare un profilo Facebook è come quando a Capodanno si stappa lo spumante. Ridiamo, esultiamo, sospiro di sollievo! Li osserviamo emozionarsi, sorridere, apprendere di un lutto e piangere, ancora la sensazione amara e insopportabile dell’impotenza. En Libye, c’est un enfer, ci hanno venduto e poi ci buttavano come Dio ci ha fatto sul pavimento bagnato mandando la corrente elettrica. Scrivo, dentro sono rigida, lo osservo e mi chiedo la forza di quest’uomo da dove arrivi, è più piccolo di me di qualche anno. Sono partito quando la mia bimba aveva due mesi, ora ha un anno e tre mesi. Tende le braccia. Vorrei sentirla, stringerla a me, giocare, vederla crescere. Ma devo andare avanti, riprendere me stesso e provare ad allontanare quei pensieri, quei giorni, trovare la lucidità per la mia nuova vita. Sento le donne che urlano mentre vengono stuprate, solo buio nei cameroni dove siamo ammassati, la sete dell’acqua salata che ci fanno bere solo una volta al giorno. La fame, i pensieri che rimbombano dentro al cervello, i miei compagni uccisi, stesi accanto a me. Voglio rivedere la luce, quando la vedo uno dei miei aguzzini è là. Mi getto ai suoi piedi implorandolo di salvarmi la vita. Urlo. Le bastonate le aspettavamo ogni mattina, come voi il caffè qua in Italia per la colazione. Ridiamo con le lacrime agli occhi. Come il caffè.
Oggi sono troppi abbiamo già dato almeno trenta numeri per l’ingresso all’internet point, si lamentano, bramano la loro unica via di contatto, un po’ di calore, un po’ di casa. Sono agitati. Vado lì nel parchetto dove aspettano e ricordo le parole di un ragazzo alto che mi chiamava short woman prendendomi in giro. Mi sento minuscola, lo sono, non voglio urlare di sedersi, le loro voci mi sopraffanno. Sembra una delle mie classi di bimbi di sei anni, impaziente di alzarsi dal banco per riprendere a giocare. Sto in silenzio e mi siedo per terra. Loro si dispongono attorno a me. Hanno capito. Ci rispettiamo nonostante le emozioni di rabbia e frustrazione prevalgano, e questo mi commuove. Anche oggi è andata. Mi godo la mia brioche con il gelato più buona della Sicilia e mi rigenero (di qualche kg!).
Muri invisibili.
Musica dal vivo, aperitivo stile milanese, per restare in linea: Spritz! Preamboli di una stagione esplosiva. Ridiamo e canticchiamo rilassandoci. Gli abili musicisti reinterpretano Je so’ pazzo e tre ragazzi ballano dall’altro lato della strada guardando verso il locale, non si avvicinano né si siedono, possono? Sembrano spensierati. Io lo so che sono un errore, nella vita voglio vivere almeno un giorno da leone, e lo Stato questa volta non mi deve condannare pecché so’ pazzo, je so’ pazzo e oggi voglio parlare. […] Je so’ pazzo, je so’ pazzo e chi dice che Masaniello poi negro non sia più bello? E non sono menomato, sono pure diplomato e la faccia nera l’ho dipinta per essere notato. Nemesi?