Il mito della scoperta dell’America ricava una consistente parte della sua forza dalla cancellazione sistemica delle popolazioni indigene che abitano il continente. A partire dal nome — Colombo credeva d’essere sbarcato in India, per cui tutti i popoli nativi sono stati da allora definiti e assimilati con il termine Indiani —, le centinaia di comunità tribali, composte da milioni di individui al momento dello sbarco dell’europeo bianco sul continente americano, sono state omogeneizzate a unicum selvaggio nei quaderni di viaggio e nei diari dei colonizzatori e decimate attraverso pratiche di sterminio quali la sterilizzazione di massa, la pulizia etnica, la deportazione, la privazione della terra.
Nell’attuare la dura repressione delle culture tribali dei Nativi Americani, l’imperialismo statunitense e canadese si è spesso avvalso della cristianizzazione. Gli orrori delle residential schools riemersi nelle ultime settimane sono testimonianza ossea del ruolo cruciale ricoperto dalla Chiesa nei secoli successivi al primo contatto tra europei e Nativi. Ruolo che è anzitutto storico e ideologico, poiché affonda le radici nella Doctrine of Discovery, emanazione papale che estendeva ai coloni cristiani il diritto di ampliare il dominio del proprio sovrano sui territori abitati da popolazioni non fedeli. La Doctrine of Discovery fu alla base dell’espropriazione territoriale dei Nativi, uno dei motivi per i quali ancora adesso i discendenti di quelle popolazioni non possono accampare diritti sulla terra che diede i natali ai loro progenitori.
Il continente americano era considerato dagli europei terra nullius, terra di nessuno. I suoi abitanti paragonati alternativamente a minacciosi demoni e a nobili selvaggi destinati a scomparire dinanzi all’inevitabile e illuminata avanzata del progresso. Gli scritti degli intellettuali dell’epoca evidenziano quanto la pretesa di superiorità della cultura cristiana europea sia alla base del genocidio culturale perpetrato per secoli ai danni delle popolazioni indigene di Stati Uniti e Canada.
Comincia sin da subito a insinuarsi, nella patria Inghilterra, l’idea che la scoperta del continente vergine — proprio agli albori del sistema di produzione capitalista — sia provvidenza divina. Non a caso, molta parte del mito americano nella fondazione nasce dal concetto di Destino Manifesto: la conquista eroica della natura selvaggia come espressione di un fine ultimo scritto nelle stelle da Dio di suo pugno.
I Nativi Americani fanno parte del mito fondante più come porzione della natura indomita del continente da piegare a uso e consumo dell’imperialista bianco che come persone in carne e ossa, figure del passato le cui spoglie sconfitte servono da trofeo e da sfoggio della superiorità bianca vittoriosa nella sua opera di civilizzazione. Le residential schools entrano in gioco nel XIX secolo e restano attive fino alla fine degli anni Novanta. Il 70% di questi collegi dell’orrore veniva gestito dalla Chiesa cattolica. Tra il 1800 e la fine del XX secolo, più di 150mila infanti vennero strappati alle famiglie d’origine in tenera età (molto spesso dai 3 o 5 anni) e portati nelle spettrali caserme che ospitavano le residential schools allo scopo di uccidere l’Indiano nel bambino.
Le scuole somigliavano a centri di detenzione, ai bambini ammassati a decine nei dormitori veniva proibita ogni forma di socialità o di manifestazione d’affetto. Veniva proibito loro di parlare nella propria lingua, venivano rasati loro i capelli. Insieme alle trecce e alle lunghe chiome corvine, venivano privati del nome e identificati solo con un codice numerico. Le pene corporali come frustate e percosse venivano eseguite a cadenza quotidiana. Nelle residential schools si moriva per malnutrizione, per malattie proliferate in pessime condizioni igienico-sanitarie, per ferite non adeguatamente medicate. Alcuni ragazzini provavano a togliersi la vita. Nelle residential schools l’abuso sessuale, la violenza, le gravidanze causate dallo stupro avvenivano all’ombra della Storia, intenta a guardare altrove.
Le comunità native si tramandano, oggi, anche il dolore. Un dolore attivo, raccontato, approfondito, scandagliato dai membri delle First Nations che lottano per riappropriarsi della Storia, la loro storia, attraverso le storie. I sopravvissuti e le sopravvissute alla rieducazione cattolica hanno parlato per anni dei soprusi subiti, senza che nessuno fosse disposto ad ascoltare. La notizia del ritrovamento recente dei resti di 751 bambini Indiani nei pressi di un ex istituto e, ancora prima, la terribile scoperta analoga di più di 200 corpi in un altro collegio del Canada ha scosso l’opinione pubblica del mondo. Le tombe non hanno nome, così come non avevano nome i bambini detenuti nelle residential schools. La loro storia, però, non può essere cancellata. Non possiamo far finta di non vederla, nasconderla sotto un apologetico tappeto di giustificazioni per l’imperialismo.
In questi giorni, mentre le comunità First Nations versano lacrime e portano peluche, mocassini, fiori e piccoli pegni alla memoria di quei bambini dimenticati, c’è un silenzio che pesa come un macigno: è quello della Chiesa cattolica e del Papa che, se da un lato ha espresso immediatamente cordoglio e vicinanza alle comunità toccate dalla tragedia, non ha rilasciato dichiarazioni circa il coinvolgimento e il ruolo della sua istituzione negli anni di operatività delle scuole.