Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire. Somiglia un po’ alla vita di Jep Gambardella – protagonista del celebre film di Paolo Sorrentino, La grande bellezza – il momento attuale del Senatore Matteo Renzi, in crisi di risultati e a secco d’ispirazione. Come il giornalista interpretato da un magistrale Toni Servillo, l’ex Sindaco di Firenze è, infatti, vittima di un blocco creativo dal quale non riesce a uscire, schiavo del proprio ego, l’unica cosa che – probabilmente – ama anche più della sua stessa opera.
È stato il fautore del governo attuale – il Conte bis –, ha fatto sì che l’improbabile matrimonio tra le odiate fazioni del MoVimento 5 Stelle e il PD fosse possibile e adesso vuole tenerlo in pugno. Ha usato a suo piacimento il partito del Nazareno, ora retto da Nicola Zingaretti, per poi tentare con ogni mossa possibile di prosciugarne i consensi, dimostrando, così, alle correnti che lo additavano di un eccessivo individualismo, che senza di lui, alla voce centrosinistra della scena politica italiana, non avrebbe potuto esserci altro.
Ha fondato Italia Viva portando via rappresentanti e persino due ministri ai democratici, Teresa Bellanova (politiche agricole alimentari) e Elena Bonetti (pari opportunità e famiglia), riuscendo a garantire a un partito neonato – quindi legato a percentuali di gradimento oscillanti tra il 4 e il 5%– un peso specifico da top class, dunque in grado di far vacillare l’equilibrio dell’esecutivo in qualunque momento e attraverso qualsiasi agitazione. Un’iniziativa – c’è da dargliene merito – di cui in pochi sarebbero stati capaci.
Se c’è una lezione, però, che anche un abile stratega come Matteo Renzi avrebbe dovuto imparare da questi ultimi anni – dal referendum costituzionale del 2016 che gli costò la poltrona di Palazzo Chigi all’editto del Papeete dell’estate scorsa – è che l’eccessiva personalizzazione delle battaglie politiche, dentro e fuori dal Parlamento, non sono viste di buon gradimento dall’elettorato. Inoltre, il triennio in oggetto ha dato prova di come lo scacchiere istituzionale sia in continuo mutamento e chi in un primo momento sembrava comandare il gioco, d’un tratto, si trova a rincorrere.
È questo, forse, il motivo per cui il Senatore fiorentino ha pensato di dare al suo prossimo libro il titolo de La mossa del cavallo, “copiando” – tra l’altro – Andrea Camilleri che, così, aveva nominato una delle indagini del commissario Montalbano, in quel che – con un po’ di ironia – sembra un altro dispetto all’ex collega Zingaretti. Battute a parte, Renzi vuole dimostrare che Italia Viva esiste mentre sa bene che non è così. I sondaggi, dalla nascita del nuovo partito, non lo hanno mai eletto al ruolo di contendente credibile e dopo quasi sei mesi i numeri restano quelli di una lista qualunque di reduci radicali.
Ecco spiegata la strategia dell’ex Premier che, in crisi d’ispirazione come Gambardella, cerca nella mondanità del dibattito politico il pretesto per dimostrare il peso dei suoi tra i banchi della maggioranza nel tentativo di tenerla in scacco, pardon di farla fallire. Non a caso, da diverse settimane Matteo Renzi provoca Conte, i 5 Stelle e il PD sul tema della prescrizione, con il Senatore che minaccia di passare all’opposizione e il Primo Ministro che, dal suo canto, assicura di avere sotto controllo i numeri alle Camere anche in caso di passo indietro dei membri di IV.
Tuttavia, la discussione sulla riforma della giustizia voluta da Bonafede non sarà il campo sul quale Renzi giocherà l’affondo più concreto contro i suoi ex compagni. L’obiettivo è mettere in imbarazzo il PD mirando al caposaldo del governo in essere: il Reddito di Cittadinanza. Storicamente sfavorevole alla manovra assistenzialista manifesto dei pentastellati, il leader toscano è pronto a muovere le pedine pesanti contro la legge voluta da Di Maio e oggi sostenuta, per motivi di reciproca convenienza, anche dal Nazareno.
Riuscisse davvero a mettere in crisi il governo minando le fondamenta del RdC, Renzi garantirebbe a Italia Viva una stagione politica fuori dall’anonimato a cui sembra, invece, destinata. Quel che appare – ancora una volta – lampante è la tracotanza con cui personalizza ogni dibattito, l’insolenza che adopera per determinare anche quando non ne ha i mezzi, incoraggiato dalla consapevolezza di aver a che fare con la classe politica più inefficiente e inesperta probabilmente di sempre.
Come il giornalista romano del film Premio Oscar, Matteo Renzi è, sì, vittima di un blocco creativo dal quale non riesce a uscire, schiavo del proprio ego, ma è grazie a quest’ultimo che riesce comunque a monopolizzare l’audience di giornali e TV, dando a tutti l’idea che, in ogni caso, le sorti del governo dipendano soltanto dalla sua volontà.