Appena pochi mesi fa, raccontavamo la storia di Giacomo Seydou Sy, emblematica per capire quanto la salute mentale sia ancora un tabù nel nostro Paese e quanto lo sia ancor di più dietro le sbarre, dove il disagio psichico è sottovalutato e tutt’al più trattato con uso smodato di psicofarmaci, senza alcun percorso curativo e riabilitativo reale, nonostante ne soffra un terzo della popolazione detenuta. Nel suo caso, portato all’attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, era stato disposto il collocamento immediato in una REMS, una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, istituita dapprima con la legge n. 9 del 17 febbraio 2012 e poi modificata per sostituire gli ex Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
Per questi ultimi nel 2014 è stato infatti disposto il definitivo superamento, anche alla luce delle pratiche inumane e degradanti che si tenevano al loro interno e che erano state portate alla luce da un’apposita Commissione. Ma Giacomo, come tanti altri, in quella REMS non sarebbe mai arrivato, perché non vi erano posti disponibili, e così era rimasto in carcere, in un luogo sicuramente non idoneo alla presa in carico del suo disagio. Eppure, quello che oggi cerchiamo di raccontarvi non è la semplice necessità di mettere a disposizione più REMS, come si potrebbe pensare, ma qualcosa di molto più ampio.
La CEDU, in quell’occasione, condannò l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta trattamenti inumani e degradanti, oltre che per molteplici altre accuse, tra cui quelle di detenzione illegittima e violazione del diritto a un processo equo. Precisò innanzitutto l’inidoneità del carcere come luogo di cura, atto ad accogliere un soggetto che necessiti di cure costanti, per cui vanno immaginati modelli differenti di presa in carico, che non passino necessariamente per una REMS, laddove in particolare si tratti di un soggetto la cui pericolosità sociale può essere affrontata con strumenti alternativi.
Le REMS, infatti, sono state introdotte con l’obiettivo di ribaltare il fine prioritario della pena, dando prevalenza a quello riabilitativo e curativo, anziché a quello punitivo – che in realtà, stando al dettato costituzionale, dovrebbe essere abbandonato nel suo senso stretto anche per le pene scontate negli istituti – rivolgendosi alla gestione medico-sanitaria di soggetti la cui infermità o semi-infermità mentale sia la causa del reato da loro commesso o comunque renda impossibile l’esecuzione di una pena detentiva in carcere. Tuttavia, trattandosi comunque di uno strumento restrittivo della libertà personale, le REMS vanno scelte solo quando la pericolosità sociale di un soggetto sia tale da risultare troppo rischioso lasciarlo in società.
Tuttavia, come ci dimostra quotidianamente l’universo carcerario, la teoria è ben diversa dalla realtà e così da un lato si è abusato e si abusa di tale strumento, dall’altro i posti disponibili nelle trentuno REMS aperte sul territorio italiano sono insufficienti per chi ne ha bisogno. Ce lo conferma un recente studio condotto dalla Società Italiana di Psichiatria e discusso in occasione del suo 49esimo congresso: le REMS sembrano non solo inefficaci sul piano della cura, ma soprattutto utilizzate non correttamente dalla magistratura, che le sta rendendo il contenitore di tutto ciò che il carcere non vuole, su cui si allunga l’ombra sinistra di un ritorno al passato.
Stando ai dati raccolti, infatti, in tali residenze sono spesso collocate persone indagate e sottoposte a misure di sicurezza provvisoria, ma per le quali l’infermità di mente non è ancora stata accertata, persone detenute i cui problemi psichici sono sorti o si sono acuiti in carcere, o per cui comunque non sussista nessuna patologia psichiatrica conclamata (ad esempio, problemi derivanti dalla marginalità sociale o dall’utilizzo di stupefacenti).
La Corte Costituzionale ha rilevato le stesse incongruenze e contraddizioni in una recente sentenza, in cui, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del sistema delle REMS e delle misure di sicurezza psichiatriche, pur propendendo per la dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per evitare un intollerabile vuoto di tutela, ha invitato il legislatore a riformare la materia e, in particolare, a prevedere un’organizzazione migliore del suo funzionamento, lasciato in capo a fonti ed enti subordinati.
Da allora, nulla è cambiato, e ulteriori anomalie sono emerse grazie al XVIII Rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, che mostra come in Italia si oscilli tra un sistema carcero-centrico e uno REMS-centrico, collocando i condannati in tali strutture al di là del basilare principio di prudenza e non servendosi affatto di strumenti alternativi, primo tra tutti di una sinergia con servizi territoriali di salute mentale.
La presa in carico dei soggetti non può avvenire dopo la decisione giudiziale e in un modo che comunque lascia perplessi: la soluzione non è costruire nuove carceri né nuove REMS, ma farsi portatori di un modello sano di cura, che ponga al centro l’uomo e la sua individualità, e che dia alla salute mentale l’importanza che merita.