Per condurre un’analisi del sistema sanitario esistente è utile considerare vari aspetti: le istituzioni che prendono in carico e sono responsabili della domanda di cura (Stato, assicurazioni pubbliche o private, ecc.), i modelli organizzativi dell’offerta di cura (il funzionamento e il ruolo degli ospedali, la medicina generale), i modelli organizzativi delle professioni mediche (si fondano sul presupposto del paziente-consumatore). calderoli
I sistemi sanitari si possono dividere in tre macrocategorie:
– sistemi nazionali di salute, caratterizzati da un servizio pubblico, gratuito e finanziato dalla fiscalità generale, quindi basato sulle capacità contributiva degli individui;
– sistemi assicurativi di malattia che coniugano l’offerta di cura pubblica con quella privata, finanziati dalla quota sociale creata dalle casse delle assicurazioni mediche;
– sistemi liberali in cui l’offerta di cura è privata e la copertura pubblica per i più vulnerabili è debole, mentre il resto della popolazione ha assicurazioni private spesso finanziate dalle imprese.
Federico Toth classifica, nel 2016, i servizi sanitari in sette sistemi. Egli definisce il SSN italiano un modello finanziato dal gettito fiscale e ad accesso universale. Lo Stato non è solo finanziatore ma erogatore diretto delle prestazioni sanitarie tramite ospedali e ambulatori pubblici. L’intervento pubblico è alto (di conseguenza la scelta dell’utente è, in teoria, bassa).
Negli anni, alcune delle tendenze di molti sistemi sanitari europei, non da meno l’Italia, sono state quelle di avviare un processo di decentralizzazione, in particolare di regionalizzazione della sanità, e di inserire logiche di mercato e di gestione aziendale nell’organizzazione dei sistemi sanitari.
Sotto il IV Governo Andreotti, la convergenza degli esponenti della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, nel giugno 1978, vide l’approvazione della proposta che portò l’istituzione del SSN. Il modello preso di riferimento era il National Health Service inglese, ovvero un modello solidaristico strutturato in base ai bisogni di salute e la compartecipazione al pagamento in base al reddito.
Con la legge 833/1978 venne istituito il nuovo Servizio Sanitario Nazionale articolato su tre livelli:
– lo Stato, a cui spettava la definizione sia degli aspetti giuridici che operativi, di indirizzo e di coordinamento delle attività in materia sanitaria, questo per garantire il rispetto dei principi di uguaglianza e di diritto alla salute per l’intero territorio nazionale;
– le Regioni, autonome dal punto di vista gestionale ma non finanziario, che si occupavano di aspetti organizzativi e di articolazione dell’assetto della sanità regionale;
– quello locale che vedeva protagonisti i Comuni che controllavano e gestivano le USL, Unità Sanitarie Locali, responsabili dell’organizzazione di base dei servizi sanitari.
Il finanziamento del sistema doveva avvenire tramite il Fondo sanitario nazionale definito in sede di bilancio dal governo centrale che avrebbe distribuito le risorse alle Regioni che a loro volta le avrebbero assegnate alle USL. Le strutture private lavoravano in integrazione con il SSN e venne data loro la possibilità di convenzionarsi con strutture pubbliche.
Le Regioni, per le questioni relative alla sanità, cominciarono a mettere in discussione il governo centrale e a rivendicare maggiore autonomia. Le questioni sanitarie furono infatti una delle cause del processo di decentramento italiano che si manifestò in due diverse forme:
– resistenza passiva all’attuazione delle iniziative politiche del governo centrale;
– orientamento della Corte Costituzionale che ha più volte accolto ricorsi delle Regioni contro il governo centrale.
Questi limiti caratterizzano gli anni Ottanta assieme ai fattori sociali e demografici propri delle regioni che compiono scelte politiche differenti in termini organizzativi e di utilizzo delle risorse.
Un altro limite della 833/1978 a livello periferico fu la sovrapposizione dell’Assemblea Generale di ogni USL con il Consiglio Comunale della città di competenza dell’ente. La partecipazione e l’avvicinamento della società civile a questi enti era molto complesso e vigeva un processo di lottizzazione partitica che coinvolgeva la maggior parte degli organi direttivi delle USL. Organi direttivi spesso affidati in base all’appartenenza politica. Ciò creò negli anni dei disavanzi di gestione per l’assenza di controlli sulle spese di questi enti e incompetenza delle diverse direzioni.
Inizia una seconda fase di riorganizzazione della sanità italiana con l’approvazione delle 502/92 e 517/93 che perseguono tre obiettivi per il SSN nel rispetto dei principi universalistici della riforma del 1978:
– la decentralizzazione del sistema tramite la sua regionalizzazione. Gli amministratori regionali speravano che il decentramento portasse una maggiore legittimazione del loro livello di governo;
– la trasformazione delle modalità di finanziamento;
– l’avvio di un processo di aziendalizzazione del SSN.
Il governo centrale e il Parlamento erano ben disposti a trasferire poteri e responsabilità nell’ottica di intraprendere politiche di austerità e razionalizzazione in campo sanitario. Questo, ricordiamolo, all’indomani di Tangentopoli di cui la sanità era uno dei principali focolai dello scandalo. In questo modo avrebbero distribuito le responsabilità riguardo le decisioni impopolari.
La Regione ha il compito di programmare e organizzare i servizi assistenziali a discapito dei Comuni. Lo Stato mantiene competenza esclusiva in materia di linee programmatiche a livello nazionale. Le USL smettono di essere strutture operative dei Comuni e diventano enti regionali, trasformate in Aziende Sanitarie Locali, le ASL, dotate di autonomia gestionale e personalità giuridica con delle regole di gestione economica uguali a quelle di una qualsiasi altra azienda, con una sola peculiarità: l’obbligo di chiudere in pareggio il bilancio annuale.
Le ASL hanno caratteristiche di un ente pubblico perché dotate di autonomia patrimoniale, contabile e imprenditoriale ma con un’impostazione aziendale che consente di organizzarsi autonomamente. Il modello tecnico-aziendalistico, dopo lo scandalo di Tangentopoli, vuole sostituire quello di tipo politico-rappresentativo. Vengono collocati direttori generali affiancati da un direttore sanitario e uno amministrativo, in teoria, non nominati in virtù dell’appartenenza politica. Tra dire e fare poi…
Le ASL vengono autorizzate a fornire agli utenti dei servizi necessari producendoli in proprio o acquistandoli da altre strutture pubbliche o private (accreditate e con determinati requisiti). Non viene imposto un numero massimo di strutture accreditabili e la decisione è a discrezione della singola regione.
In Lombardia ad esempio si accreditano tutte le strutture mediche presenti sul territorio creando pluralità di soggetti erogatori, pubblici e privati, che cominciano a operare in competizione tra loro. In Emilia-Romagna ogni ASL sceglie i propri fornitori con cui contratta il prezzo, la quantità e la qualità dei servizi. Nel modello emiliano il medico di base indirizza gli utenti verso gli erogatori scelti dalle ASL di appartenenza. Alla popolazione viene concessa la facoltà di ricorrere all’assistenza privata per le prestazioni mediche ma non limitata alle prestazioni aggiuntive rispetto a quelle offerte dal SSN. Quindi quest’ultima diventa potenzialmente sostitutiva del sistema pubblico.
Dopo tale introduzione che potrebbe essere ulteriormente approfondita, parliamo del focus di ciò che sta accadendo oggi. Il Ministro Calderoli presenta il suo decreto sull’autonomia che, se il Parlamento approva, nel 2024 diventerà legge. Il modello è (a grandi linee) quello delle cinque regioni a Statuto Speciale. Queste regioni si tengono gran parte delle imposte e delle tasse (IRPEF, IRES, accise sul carburante, IVA). Pensiamo alla Valle d’Aosta che tiene il 100% di IVA. Con questi soldi le regioni si pagano, ad esempio, anche la sanità e decidono in materia sanitaria; quello che manca lo mette lo Stato. Il paradosso è che un cittadino di una regione a Statuto Speciale costa allo Stato quanto un altro cittadino in una qualsiasi altra regione con la differenza che le regioni a statuto speciale hanno quasi il doppio delle risorse da spendere in proprio. Insomma con l’autonomia ogni regione potrà negoziare con lo Stato.
L’art. 1 della proposta Calderoli prevede che l’attribuzione di nuove funzioni legislative e amministrative in forma differenziata debba essere subordinata alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, i LEP, concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. I LEP, tuttavia, non sono mai stati definiti. Una volta decisi, attraverso dei DPCM si stabiliranno costi e fabbisogni standard.
Pensiamo che la base nella quale arriva questa proposta, attualmente, veda già profondo divario e iniquità tra le diverse regioni. Con questa riforma, anche se prevede un fondo prerequativo per evitare iniquità, le disuguaglianze non potranno che essere accentuate. I LEA, livelli essenziali di assistenza, procedono infatti a diverse velocità tra regione e regione. Quello tra Nord e Sud non è l’unico divario esistente. I dati mostrano forti differenze anche tra regioni del Nord-Est, del Nord-Ovest e del Centro Italia. In un’ottica globale è inoltre ampiamente dimostrato che gli Stati dell’Unione Europea più competitivi hanno minori disuguaglianze tra regioni.
Quindi, in quale direzione ci stiamo muovendo? A oggi lo scenario più plausibile è quello dell’aumento delle disuguaglianze in ambito sanitario e lo smantellamento, giorno dopo giorno, dei principi cardine del nostro SSN. Quelli di universalità, uguaglianza ed equità.