Dalla Liguria al Veneto, alla Campania, per finire in Puglia, le ultime elezioni regionali hanno visto la conferma, da Nord a Sud – a esclusione delle Marche –, delle precedenti amministrazioni, sottintendendo una certa soddisfazione da parte dell’elettorato per gli impegni mantenuti e non.
In Liguria, nonostante la tragedia del crollo del ponte Morandi causato dal mancato controllo sulle manutenzioni e dalle gravi responsabilità della società di gestione, oltre che dall’omissione di quanti preposti al rispetto delle clausole contrattuali, si è evidentemente preferito voltarsi dall’altra parte, premiando il Presidente ormai al termine di mandato e penalizzando quelle forze di governo che si sono impegnate in uno sforzo di ricostruzione in tempi rapidi – e senza precedenti – di cui, invece, andava dato atto.
In Veneto, la gestione della pandemia, che ha colpito alcuni territori in maniera preoccupante ma certamente non paragonabile al disastro lombardo, ha visto trionfare in modo massiccio non la Lega di quel Matteo Salvini della continua propaganda, bensì il Presidente uscente, ex ministro Luca Zaia, noto per aver definito i resti di Pompei quei quattro sassi, che ha utilizzato una strategia meno teatrale del suo collega campano, ma pur sempre furbesca e attenta alle paure, misurandone e adeguandone il grado di intensità giorno dopo giorno.
Anche in Puglia confermato Michele Emiliano, soluzione se non altro gradita a evitare un’altra stagione del sempre triste Raffaele Fitto, pur imputando al primo la sua inadeguatezza nell’assunzione di un atteggiamento rigoroso riguardo l’impianto siderurgico di Taranto e dei suoi conseguenti disastri ambientali e occupazionali, e, tema annoso ma non ultimo, in merito ai trasporti e alla rete viaria locali. L’unico elemento di novità arriva, invece, dalle Marche, dove il candidato di Fratelli d’Italia ha mandato a casa la coalizione che aveva retto le sorti della regione per venticinque anni. In cambio, tutti gli altri sono stati confermati dagli elettori, evidentemente paghi delle gestioni uscenti per la loro capacità di attuare i programmi previsti. Poco importa se, come nel caso della Campania, i quasi 6 milioni di tonnellate di ecoballe giacenti in più zone del territorio da quasi un ventennio – e che a un anno dalla scorsa elezione De Luca assicurò di voler eliminare – sono diventati nel tempo delle vere e proprie balle.
Ancora una volta, un elettorato ondivago, pervaso da un’emotività avulsa da qualsiasi contesto ideologico, è sembrato voler prendere le distanze da quelle forze politiche troppo in fretta definite del cambiamento e che, mai come in questa occasione, da una parte hanno raccolto un consenso considerevole su un quesito referendario dal risultato scontato e, dall’altra, un’ulteriore sensibile riduzione del sostegno per il rinnovo dei consigli regionali. Una batosta passata in sordina, coperta dall’entusiastica percentuale sul taglio del numero dei parlamentari.
A tal proposito, avevamo già previsto l’ulteriore tonfo del M5S, in particolare in Campania, a causa di una segreteria politica incapace di indicare linee unitarie sul territorio nazionale a favore di posizioni autonome che da tempo stanno portando il movimento ad avere numeri sempre più penalizzanti e che difficilmente riusciranno a virare su Napoli tra poco meno di un anno, salvo qualche candidatura di rilievo che possa aggregare altre forze. È noto, infatti, che non sempre le operazioni di palazzo riescono nel proprio intento senza un dibattito, quel confronto che nessuna piattaforma potrà garantire, se non affermando ancora una volta che la discussione è avvenuta all’interno e con la proprietà Casaleggio.
Ben altro discorso quello riguardante il Partito Democratico, il partito di Vincenzo De Luca e il suo stuolo di liste, da Mastella a Pomicino, che dovranno necessariamente far chiarezza e trovare un punto di equilibrio, in particolare tra i primi due. Un rapporto di forza che il Presidente riconfermato, forte anche dell’endorsement di Zingaretti – che ebbe a definirlo un gigante – vorrà porre sul piatto della bilancia magari ipotecando proprio la poltrona di Palazzo San Giacomo per un suo fedelissimo, certo che il debole segretario prima o poi cederà di nuovo e che l’infelice affermazione contro i napoletani – perché lì ci sono persone geneticamente ladre: ladri di camorra o ladri di pubblica amministrazione non fa differenza – farà la stessa fine degli improperi di Matteo Salvini.
Intanto, alla destra va riconosciuta – come sempre in occasione delle competizioni elettorali – la capacità di presentarsi compatta ovunque per poi riprendere subito dopo ciascuno il proprio cammino in autonomia, anche se al suo interno dovrà fare i conti con i mutati equilibri in presenza di considerevoli pacchetti di voti che ruotano ormai a ogni stagione da quando è cominciato il declino di Forza Italia. Il Carroccio di Matteo Salvini, invece, consapevole di non riuscire a diventare significativa forza politica in tutto il Paese, dovrà confrontarsi con quella Lega Nord cui interessa soltanto la scissione, come ha ribadito il neo eletto Zaia dichiarando che l’obiettivo prioritario non sarà la gestione del partito ma unicamente l’autonomia. Una resa dei conti che nei fatti è già cominciata.
Nella circostanza meritano una citazione davvero particolare quelle figure erranti, come profughi in cerca della terra promessa più conveniente, presenti ovunque e in tutte le realtà locali, ma che in casa partenopea, spudoratamente e in piena crisi di autoesaltazione, sono scappate per inseguire improbabili sirene. Di loro non si hanno già più notizie, certamente tornate nel nulla, perché non sempre saltare sul carro del potenziale vincitore è garanzia di vittoria.
Infine, come non rilevare la scomparsa della sinistra radicale, quell’insieme di sigle più volte trasformatesi nel tempo, che anche questa volta ha registrato percentuali bassissime. Persino realtà più recenti, come Terra e PaP – anche se differenti per provenienza e formazione e, nel caso di quest’ultima, impegnata sui territori con attività rivolte ai più deboli –, restano sempre distanti dai grandi temi in un discorso più ampio e necessariamente da sviluppare con le altre forze della sinistra per non continuare a contare decimali. Credo, infatti, che sia giunto il momento di un cambio radicale di strategia, abbandonando bei ricordi nostalgici e sogni irraggiungibili. Occorre guardare avanti e fare i conti con il mutato atteggiamento dell’elettorato, scarsamente ideologizzato ed estremamente emotivo, sensibile agli accadimenti del momento.
È tempo di tornare ai problemi e alle attese del mondo operaio, delle fasce più disagiate, ai disoccupati, al mondo della disabilità, ai pensionati divenuti invisibili proprio a quella sinistra sempre più divisa e frammentata, incapace di intercettare le vere necessità di una parte consistente della nostra società, spesso presente soltanto nelle elucubrazioni e nei bei discorsi elettorali.