A partire da luglio i promotori di Liberi fino alla fine avranno a disposizione tre mesi per raccogliere 500mila firme e permettere così lo svolgimento di un referendum in cui gli italiani saranno chiamati a decidere se rendere l’eutanasia legale.
La relativa proposta di legge, invece, è stata depositata oramai otto anni fa dall’Associazione Luca Coscioni, ma da allora il Parlamento – nonostante le sollecitazioni provenienti non solo dalla società civile ma anche dalla Corte Costituzionale in merito al suicidio assistito e all’aiuto al suicidio – non è intervenuto sul tema e, anzi, poche settimane fa il testo base, già frutto di un largo compromesso, è stato bloccato dal gruppo di Forza Italia.
Il referendum si propone come parzialmente abrogativo dell’articolo 579 del Codice Penale, che prevede la punibilità di chiunque cagioni la morte di un uomo, pur se consenziente, escludendo la sola applicabilità delle aggravanti. L’intenzione è quella di negare la responsabilità di chi procuri la dipartita di una persona consenziente, ribaltando il principio di indisponibilità del diritto alla vita. Non esiste, infatti, un diritto a morire speculare al diritto a vivere, eppure così il perdurare in vita diventa valore primario e collettivo, pur senza la volontà del soggetto coinvolto e qualunque siano le sue condizioni.
Naturalmente escludere la punibilità non esimerebbe il legislatore dall’intervenire, anzi il suo ruolo diventerebbe ancora più centrale in vista della definizione dei criteri e delle modalità, oltre che dei soggetti legittimati, per portare avanti il proposito dell’eutanasia. Più di un anno fa la modalità del referendum è stata utilizzata per legalizzare la pratica in Nuova Zelanda – con il 65% dei voti favorevoli – mentre l’ultimo Paese in cui tale passo in avanti è stato compiuto – in quel caso dal Parlamento – è stata la Spagna. Proprio in quell’occasione, Mina Welby ci parlò dell’importanza dell’informazione sul tema e della necessità di acquisire delle consapevolezze che possano spogliare gli individui dai pregiudizi che spesso li accompagnano sull’argomento. Se, infatti, fossero raccolte abbastanza firme da confermare la richiesta di referendum, come ci auguriamo, si dovrà poi compiere un grande sforzo comunicativo per ottenere questo slancio di civiltà.
Attualmente, in Italia sono considerati reati sia il suicidio assistito che l’eutanasia attiva, in cui il medico non si limita a sospendere i trattamenti che tengono in vita il paziente, ma gli somministra un farmaco che mette fine alle sue sofferenze. Come abbiamo più volte ricordato, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’articolo 580 del Codice Penale – che stabilisce la punibilità di chi determini l’altrui suicidio, ne rafforzi il proposito o ne agevoli l’esecuzione – illegittimo nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano verificate da una struttura del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
La volontà giuridica e sociale di andare oltre la completa negazione di tale possibilità è stata confermata di recente dall’assoluzione, anche in fase d’appello, di Marco Cappato e Mina Welby che resero possibile il suicidio assistito di Davide Trentini nell’aprile 2017 accompagnandolo in Svizzera a sottoporsi al trattamento.
Eppure, l’opinione pubblica non sembra particolarmente attenta al tema, in parte perché influenzata dai valori etici e religiosi preponderanti che condannano la libertà di scelta in merito alla morte, in parte perché malinformata. Si rischia, infatti, di scambiare il mero diritto, e quindi la sola possibilità di compiere tale scelta al concorrere di determinate condizioni, con la libertà assoluta di morire con modalità stabilite individualmente e senza alcuna limitazione.
In realtà, l’obiettivo è raggiungere il modello portato avanti dall’Olanda, primo Paese a rendere legale l’eutanasia nel 2002, in cui il principio cardine dell’intera disciplina è quello dell’adeguatezza. Sono numerose le condizioni che devono ricorrere, tra cui una volontà in tal senso libera, piena e consapevole, la sussistenza di sofferenza insopportabili che non abbiano alcuna prospettiva di miglioramento e l’assenza di un’alternativa ragionevole. Inoltre, è prevista un’accurata procedura volta a verificare il rispetto di tutti i criteri da parte dei medici e il coinvolgimento dell’intera società civile nel controllo del lavoro delle Commissioni a ciò adibite.
L’obiettivo a cui bisogna maggiormente ambire è proprio la partecipazione della collettività, per rendere propri tali valori, comprenderli e assimilarli. Raccogliere 500mila firme è solo il primo passo per un progetto ben più ambizioso, che va oltre la depenalizzazione dell’eutanasia. È uno slancio di civiltà l’affermare in maniera indiscutibile il principio di autodeterminazione dell’individuo, il suo essere libero nella vita, così come nel momento della morte, perché è la sola libertà che ci rende davvero uomini.