Nella giornata di domenica, insieme alle elezioni amministrative, in quasi novecento Comuni italiani, è stato possibile votare per approvare o respingere il referendum abrogativo sulla Giustizia presentato da Radicali e Lega. Avevamo già espresso le nostre perplessità sui quesiti e in particolare sul modo in cui le modifiche erano pensate e avrebbero impattato sull’ordinamento esistente. Quanto successo due giorni fa, dunque, è probabilmente ciò che speravamo fin da principio, e a quello che non si può che definire un fallimento dovrebbero seguire delle precise domande e risposte della politica. Nessuno dei cinque quesiti ha raggiunto il quorum necessario per la validità della consultazione e un numero davvero irrisorio di cittadini ha deciso di votare: appena il 20% a dispetto del 54% registrato per le elezioni amministrative (comunque un dato non soddisfacente).
Sicuramente tale risultato è frutto di una serie di ragioni tra loro differenti, alcune delle quali si registrano già da diversi anni. Se quella della giornata di domenica è infatti la più bassa affluenza della storia italiana per un referendum abrogativo, il trend al ribasso si è oramai affermato a partire dagli anni Novanta e il raggiungimento del quorum è diventato un’eccezione, a meno che non si sia trattato di temi sentiti come particolarmente vicini dall’opinione pubblica – una buona occasione sarebbero stati quelli riguardanti l’eutanasia o la legalizzazione della cannabis – o su cui le forze politiche hanno investito particolari energie riuscendo così a racimolare interesse. A ciò si aggiunga che circa cinque milioni di elettori hanno rinunciato a recarsi alle urne perché fuori sede e, in quest’ultimo caso, pur essendo formalmente riconosciuta la possibilità di votare lontano dalla propria residenza, essa risente di un meccanismo burocratico che molti decidono di non intraprendere.
Se si sceglie di investire ingenti risorse pubbliche per lo svolgimento delle consultazioni, allora le forze politiche dovrebbero anche avere la responsabilità di costruire un apparato comunicativo adeguato, che formi e informi i cittadini sull’oggetto dei quesiti, anche se questo non è di diretto interesse del loro partito. E invece le uniche comunicazioni pervenute per il referendum sulla Giustizia sono state poco chiare, fuorvianti e con l’unico fine di operare una mera strumentalizzazione politica, da opporre alla riforma in materia che si sta votando proprio in questi giorni.
Non ce la sentiamo affatto di abbracciare l’indignazione di chi attribuisce le ragioni di tale fallimento della politica all’indifferenza e alla noncuranza dei cittadini, troppo impegnati ad andare al mare. Come abbiamo già sottolineato, si trattava di quesiti giuridici tecnici, la cui formulazione era difficile da comprendere per i non addetti ai lavori e che avrebbero comportato conseguenze vaghe e difficilmente prevedibili nell’ordinamento, lasciando nuovamente la palla nelle mani del nostro legislatore disattento e procrastinatore. Si decideva, con il primo quesito, di cancellare l’intero apparato legislativo riguardante le ipotesi di incandidabilità previste dal Decreto Severino o, con il secondo quesito, l’intero impianto delle misure cautelari – non solo detentive – previste nel caso di rischio di reiterazione del reato, creando così vuoti non accettabili né facilmente riempibili.
Con i successivi tre quesiti – per cui tra i pochi elettori votanti si è registrata una netta vittoria del sì – si tentava invece di arginare la politicizzazione della magistratura, con modalità tutt’altro che efficaci e, si può dire, meramente simboliche. Si trattava infatti di modificare le modalità di elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, eliminando la necessità di una raccolta firme, il sistema di valutazione dei magistrati, rendendo partecipi anche gli avvocati e altri membri non togati, e infine la separazione tra le carriere giudicante e requirente, impedendo il passaggio tra l’una e l’altra. Le ragioni che sono alla base della politicizzazione della magistratura sono ben più profonde e non sono certamente risolvibili con l’eliminazione di una raccolta firme o con l’obbligo di scegliere fin da subito quale attività svolgere.
Se il referendum è uno dei principali strumenti di cittadinanza attiva e di partecipazione alla vita pubblica, in questo caso non era sufficiente e l’eclatante risposta è indicativa del fallimento della vita politica. Anche l’astensione rappresenta un atto politico, un rifiuto chiaro rispetto alle modalità prescelte per salvaguardare i propri interessi da parte dei propri rappresentanti, oramai incapaci di intercettare le esigenze dell’elettorato o, per meglio dire, disinteressati a farlo.