Si rivela sottile il confine tra tutelare la maternità e promuoverla spudoratamente. E diventa sempre più chiara l’immagine di un’Italia cieca, rimasta allo stereotipo della donna massaia e dell’uomo capo di famiglia. Non si tratta solo di affermazioni sporadiche e verbali, ma di una vera e propria proposta di legge, che nasconde l’arretratezza culturale dietro i suoi nobili intenti.
Parte dalla Sardegna l’iniziativa per istituire il reddito di maternità. Di natura popolare e fiore all’occhiello del Popolo della Famiglia, la proposta è stata depositata alla Corte Suprema di Cassazione e, per giungere all’attenzione delle Camere, dovrà essere sottoscritta da almeno 50mila cittadini. Ha come obiettivo un bonus di mille euro al mese per le madri che si dedicano interamente alla crescita dei figli e alla famiglia a patto, quindi, che rinuncino a qualunque impiego lavorativo. Il premio mensile avrà validità per otto anni dalla nascita dell’ultimo bambino e diventerà vitalizio al quarto bebè.
Il partito che se n’è preso carico è un soggetto politico di ispirazione cristiana fondato sulla centralità della cosiddetta famiglia tradizionale, basata sul matrimonio e sul diritto dei figli di avere un padre e una madre. Definisce il reddito di maternità una rivoluzione, affermando di mettere al centro i diritti delle donne, la bellezza della maternità, la ricchezza rappresentata dai figli. Insomma, sostiene che la ricchezza, e quindi la soddisfazione di sé, per una donna, sia data esclusivamente dai pargoli a cui ha dato la vita e che ha cresciuto. Con il silenzio, invece, esclude il ruolo della paternità nell’autoaffermazione di se stessi.
Più che un’agevolazione per le mamme a tempo pieno che si destreggiano tra le responsabilità familiari, quindi, sembra un premio per le donne che sono pronte a rinunciare al lavoro. È ancora costantemente dibattuto il ruolo genitoriale di padri e madri, sia all’interno dell’ambito familiare sia della società. Se così non fosse, non si parlerebbe più dei disagi del congedo di paternità e dei diritti delle donne a essere madri e lavoratrici.
Eppure, questa iniziativa ricorda una parte di storia già vissuta e creduta superata, ma forse dimenticata troppo in fretta. Durante il Ventennio fascista furono molte le iniziative riguardo maternità e infanzia, tutte atte all’ingrandimento demografico della nazione. Ma accanto alle drastiche misure come gravi conseguenze penali per aborti e metodi contraccettivi, se ne ebbero alcune molto simili all’odierno reddito di maternità. Furono diffuse, infatti, agevolazioni economiche per le famiglie numerose, accompagnate, ovviamente, dall’impossibilità, per le mamme, di conseguire avanzamenti di carriera. Al contrario, per i padri di ampi nuclei familiari fu più semplice ottenere promozioni. Bonus per incentivare e penalizzazioni per scoraggiare la stessa idea: il tutto affinché le donne si dedicassero esclusivamente allo scopo di procreare e alla crescita dei figli, facendo ruotare la loro intera esistenza semplicemente intorno alla vita domestica. La maternità era la loro unica funzione sociale e il benessere dei figli la giusta motivazione per qualunque sacrificio si rivelasse necessario. Insomma, la figura di donna, massaia, dedita alla privazione, che ha invaso la storia umana per secoli.
La proposta di cui si parla negli ultimi giorni nasce come Indennità di maternità per le madri lavoratrici nell’esclusivo ambito familiare. Definisce, quindi, quello di madre un mestiere a tempo pieno, e in questo certamente non c’è nulla di male. Eppure va anche oltre e, tra le varie, non riconosce quello di padre un compito altrettanto valido. Inoltre, non fa che porre l’attenzione sulla tutela delle donne che scelgono di non lavorare, allontanando i riflettori dai sempre sudati diritti di maternità sul lavoro.
Quella di non trovare un impiego è una preoccupazione ben distribuita tra i giovani, e non solo per l’alto tasso di disoccupazione. Maggiore è il timore per le giovani donne, consapevoli di quanto la loro presenza, all’interno del mondo lavorativo, possa risultare scomoda. Una dipendente che si assenta perché i figli piccoli sono malati crea molti problemi economici e gestionali, per non parlare dei mesi pagati durante il congedo di maternità. Ogni giovane donna, quindi, sa che dovrà essere molto più brava di una sua collega più adulta e con figli più grandi, o di un uomo, per essere assunta in qualunque campo lavorativo. Dovrà essere in gamba il doppio perché valga i sacrifici economici che comporterà la sua assenza. Per non parlare delle dipendenti a cui, invece, non è ancora riconosciuto alcun congedo di maternità, seppur del tutto illegalmente.
Basti pensare alla legge che impedisce che le donne siano licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno d’età del figlio. Il semplice fatto che sia necessaria una precauzione di questo tipo è indicativo delle difficoltà non solo di essere una madre a lavoro, ma di essere una ragazza giovane, e quindi solo potenzialmente madre.
Decenni di lotte femministe hanno portato all’affermazione delle donne in tutti i settori della vita privata, economica e sociale, al pari – o quasi –degli uomini. Che possano decidere per se stesse, che possano restare single e valere comunque qualcosa, che possano lavorare, come gli uomini. Eppure è ancora inspiegabilmente diffusa l’idea materna e casalinga del gentil sesso. Ciò che più spaventa è che, in questo caso, non si sia trattato di un’iniziativa venuta dall’alto per incoraggiare maggiori nascite o per promuovere ideali culturalmente antichi e anti-femministi. È giunta bensì dal basso, dimostrando l’arretratezza culturale e ideologica che ancora si aggira tra di noi.
Costruire una vita e una famiglia può essere un desiderio per molte persone, uomini e donne. Così come la ricerca di soddisfazioni personali anche altrove, ad esempio nell’ambito lavorativo, può interessare molte persone, uomini e donne. Che l’idea promossa dal Popolo della Famiglia abbia la tendenza a ricordare la rigidità fascista, quindi, può essere opinabile, ma certamente non lo è la sua impronta sessista. Se la proposta fosse semplicemente diretta ad agevolare le persone lasciando le redini economiche dell’amministrazione domestica al proprio compagno di vita per dedicarsi all’educazione dei figli, si chiamerebbe reddito di genitorialità e sarebbe rivolto a uno qualunque dei due genitori. L’idea stessa di escludere automaticamente un padre dall’esercitare il suo ruolo a tempo pieno e di escludere a priori una madre da un qualunque impiego lavorativo, mostra la grande disparità di genere che ancora ci tormenta e che danneggia entrambi i sessi: le donne, che rinunciano alla carriera per i figli, e gli uomini che rinunciano ai figli per la carriera.
L’ideale a cui aspirare dovrebbe essere quello di non giudicare le scelte personali dei singoli, qualunque sia il loro sesso, che possono trovare soddisfazioni nel lavoro, nei figli, e in qualsiasi altro ambito, tutelandone in egual modo i diritti. E, soprattutto, quello di non inserire le persone in categorie sociali che garantiscono solo una metà di quegli stessi diritti.
Questa proposta non mi sembra affatto una cattiva idea. Se ne parlava già qualche mese fa durante i mercatini di Natale, analisi lucidamente critica di qualcosa di sensato rispetto al reddito di cittadinanza che, obiettivamente, fa acqua da ogni istanza. E’ una proposta che ha la sua ragion d’essere nel rispetto di tutte quelle donne che venderebbero l’anima al diavolo pur di non andare a lavorare per dedicarsi alla maternità e godersi i figli. Questo non vuole necessariamente dire rinunciare alla carriera bensì rinunciare di farsi inghiottire da una società che invece sta sfornando generazioni di anaffettivi. I bimbi hanno bisogno di Caregiver
(madri / padri) che, con le stesse funzionalità dell’utero sappiano proteggere o accogliere le necessità dei loro figli. Anche Winnicot lo diceva. Ma chi ci dice che un padre non possa essere una brava mamma? Potrebbero altresì essere un valido supporto quando all’interno della cellula sociale sia il fattore XX a portare la pagnotta a casa. In questo, l’autrice dell’articolo Chiara Barbati, è stata lungimirante e di quelle femministe non retrò rispetto a temi che andrebbero maneggiati con cura, conclude infatti l’articolo scrivendo: “ L’ideale a cui aspirare dovrebbe essere quello di non giudicare le scelte personali dei singoli, qualunque sia il loro sesso, che possono trovare soddisfazioni nel lavoro, nei figli, e in qualsiasi altro ambito, tutelandone in egual modo i diritti. E, soprattutto, quello di non inserire le persone in categorie sociali che garantiscono solo una metà di quegli stessi diritti”.
Quello che andrebbe discusso sono infatti le estremizzazioni tipiche del Ventennio, tipo: vitalizio fino al compimento degli otto anni, rinuncia al mondo del lavoro…. Figuriamoci se una donna, che è per antonomasia contenitore-creativo, rinuncia a creare che siano esse idee o torte, è praticamente impossibile attuare una proposta di legge che per loro, le donne, valga un per sempre categorico.
Importantissimi se non addirittura fondamentali, lo affermano anche le neuroscienze, sono i primi tre anni di vita dell’individuo durante i quali madri e padri possano trovare soddisfazione si, ma anche ispirazione per la creazione di un mondo futuro migliore se, per chiosare Massimo Recalcati, procreano per eccesso di Amore e non perché l’etichetta o la società lo impone. Grazie Chiara Barbati per aver toccato l’argomento che presento essere un’altra lotta di conquista che le donne scriveranno nel futuro. Manila Di Filippo