«Il reddito di cittadinanza è come metadone per i tossicodipendenti, va abolito»: l’ennesimo giudizio inconcludente sulla ormai nota misura assistenzialistica, stavolta, è a opera dalla leader di Fratelli D’Italia Giorgia Meloni, che non solo ha proposto un paragone poco calzante ma ha anche attribuito al reddito la responsabilità delle difficoltà nella ricerca del personale dipendente e addirittura del lavoro nero. «È un deterrente al lavoro: non si trovano lavoratori nella ristorazione, nel turismo, perché i ragazzi vanno lì e dicono “guarda vengo e lavoro in nero così prendo il reddito”». Dunque, la solita colpevolizzazione dei giovani – a quanto pare rovina di questa società – cui si aggiunge addirittura il voler risolvere una piaga di decenni come quella dell’impiego non dichiarato evitando di attribuire le responsabilità a chi davvero le avrebbe.
In quest’ultimo periodo, il reddito di cittadinanza è tornato al centro del dibattito pubblico e Renzi, appassionato di referendum, ha dichiarato di volerne proporne uno per il prossimo anno, proprio per l’abolizione della misura perché, dice, abitua la nuova generazione a vivere di sussidi. L’ex premier, tuttavia, non è l’unico ad aver messo sotto attacco il rdc, tacciato come la causa prima della mancanza di personale dipendente. Nessuno, però, si chiede mai a quali condizioni verrebbero assunte le persone che non accettano un’occupazione. Il leader della Lega Matteo Salvini si dice addirittura sbalordito nell’apprendere che i giovani non vogliano cinquecento euro al mese per lavori stagionali presso i lidi balneari.
Il governo dei migliori, intanto, pensa a un restyling della misura, che probabilmente riguarderà l’applicazione ancor più rigida di ciò che era già previsto nella legge di istituzione del reddito nel 2019: un obbligo di formazione e lavoro gratuito fino a 16 ore a settimana per 18 mesi rinnovabili e di spostamento su tutto il territorio nazionale per accettare un impiego, ammesso che questo si trovi. La proposta dei pentastellati è quella di obbligare i beneficiari ad accettare lavori stagionali entro 100 chilometri dalla propria residenza, pena la decadenza dal beneficio, potendo così ottenere manodopera a basso costo e condizioni di scelta e lavoro poco dignitose.
Gli analisti del Workfare parlano di trappola della povertà: i beneficiari non sono messi nelle condizioni di uscire dalla povertà, vengono sfruttati come un esercito di manodopera di riserva e ricattati con la perdita del sussidio.
Il reddito di cittadinanza si iscrive tra le politiche attive del lavoro, che però di attivo ha ben poco: non è altro che un sistema premio-punitivo che, anziché emancipare e rendere liberi i poveri, li infantilizza e li rende colpevoli della propria povertà. Ritorna il fantoccio della meritocrazia, che applicato alle classi più abbienti significa accusarle della posizione economica e sociale che ricoprono perché non hanno saputo guadagnarsi ricchezza e prestigio. In una società capitalistica in cui il profitto vale più delle persone, i fautori della meritocrazia la presentano come un’alternativa egualitaria ai privilegi di nascita, mentre in realtà è proprio il modo utilizzato per giustificarli.
E, così, chi non lavora, chi spesso non ha un’istruzione adeguata, chi a causa della propria età è fuori dal mercato, è responsabile della propria condizione. E le persone che dipendono dal welfare – che dovrebbe essere normale in uno Stato sociale – sono regolarmente accusate di preferire la disoccupazione e la dipendenza dai sussidi al lavoro.
Tale retorica è avallata dall’intera classe dirigente, che non fa altro che sostituire alle politiche sociali delle politiche penali, dando fasulle rassicurazioni ai propri cittadini. Le misure di welfare diventano così sempre quelle da tagliare, quelle per cui non ci sono abbastanza fondi – che, però, magicamente ricompaiono per le spese militari –, quelle che i cittadini non hanno diritto di chiedere perché sarebbero dei fannulloni a farlo.
Il rdc è una misura che si è rivelata in gran parte inutile per quelli che erano i fini che le erano stati assegnati: secondo gli ultimi dati diffusi dall’Osservatorio su Reddito e Pensione di Cittadinanza, i nuclei familiari percettori del sussidio sono circa 1 milione e 300mila. Tuttavia, nonostante le dichiarazioni dei pentestellati, le distorsioni del sistema capitalistico sono tali che nessuna misura è stata in grado di evitare l’aumento di oltre un milione di poveri assoluti durante la pandemia.
Rafforzando una tale guerra tra poveri e dipingendo questi ultimi come parassiti e causa stessa della crisi economica e sociale in cui ci troviamo, si descrive una società falsamente meritocratica in cui ciascuno si convince di avere ciò che si merita. E di essere responsabile delle opportunità che non ha.
Il reddito di cittadinanza, inoltre, non raggiunge neppure in parte gli obiettivi che invece potrebbe raggiungere l’istituzione di un reale reddito di base, facilmente attuabile attraverso l’eliminazione delle limitazioni e dei vincoli attualmente previsti e con l’estensione alla platea di extracomunitari residenti in Italia, anche da meno di dieci anni, esclusi sulla base dell’ennesima norma razzista cui sembriamo esserci abituati.
Certo è che vanno costruite misure realmente incisive per abbassare la percentuale altissima di persone che vivono in stato di indigenza, con uno strumento come il reddito di base che intervenga senza limitazioni e pregiudizi. Vanno create, poi, le condizioni per poter lavorare dignitosamente. Criminalizzare il reddito di cittadinanza e minacciarne l’eliminazione – senza sostituire la misura con altri possibili aiuti – non è che l’ennesimo modo per punire i poveri e disprezzarli.