La violenza non è il solo problema in carcere: questo è quanto emerge dal Rapporto di metà anno presentato il 29 luglio dall’Associazione Antigone. In un momento in cui il carcere è tornato nel dibattito pubblico, i dati diffusi ci invitano ad andare al di là delle immagini della mattanza di Santa Maria Capua Vetere e a portare avanti una riflessione più ampia sul tema delle condizioni di detenzione, a cominciare dall’endemico problema del sovraffollamento.
Le persone recluse negli istituti di pena italiani sono attualmente 53637, con un tasso di sovraffollamento ufficiale del 105% circa. In realtà, il tasso reale si aggira intorno al 113%, considerato che i posti effettivamente disponibili sono circa 47mila. Ciò incide notevolmente sulle condizioni di detenzione e di promiscuità che hanno rappresentato un altissimo rischio di contagio nell’ultimo anno. Il trend al ribasso che si era registrato durante la prima fase pandemica – le persone recluse erano passate da 62mila a 52mila circa – si è invertito a partire dal dicembre scorso a causa dell’inefficacia delle misure deflattive previste e, in particolare, della scarsa volontà di ricorrere a misure alternative alla detenzione che avrebbero potuto riguardare quasi 20mila detenuti, il 36% del totale, che devono scontare una pena inferiore ai tre anni.
Con tali tipologie di pena il tasso di recidiva si abbassa vertiginosamente, eppure continuano a prevalere le istanze punitive che individuano il carcere come unica soluzione e risposta alla richiesta di sicurezza dell’opinione pubblica. Circa l’80% delle persone che entrano in carcere successivamente commette un altro reato. Ciononostante, sembra che l’unica soluzione prospettata dai nostri esponenti politici per la piaga del sovraffollamento sia la costruzione di nuovi istituti di pena.
Mentre sempre più detenuti sono costretti a condividere pochi metri quadrati con tante, troppe persone, e lo stato di emergenza perdura, le uniche misure previste sono restrizioni alle attività rieducative e risocializzanti: nel 24% degli istituti visitati da Antigone nella prima parte del 2021 si è passati dal regime delle celle aperte a quello delle celle chiuse in conseguenza della pandemia. Il tempo trascorso in carcere diventa così tempo vuoto e insieme patogeno, alimentando il disagio psichico. Basti pensare che sono già stati 18 i suicidi registrati nella prima parte dell’anno, centinaia gli atti di autolesionismo, altrettante le grida d’aiuto che troppo spesso non siamo stati in grado di cogliere.
Per ridurre il numero delle persone detenute si dovrebbe operare inoltre una riforma che riguardi la disciplina sulle droghe: 1 detenuto su 4 è tossicodipendente, 1 su 3 è in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti, nonostante sia ampiamente dimostrata l’inefficacia della detenzione in tal senso poiché l’esiguità del personale e degli strumenti a disposizione non permette di avviare un reale percorso di cura e reintegro in società.
Solo il 69% delle persone recluse sta scontando una condanna definitiva, mentre la restante parte è in attesa di giudizio o appellante. In particolare, dunque, si potrebbe incidere sull’istituto della custodia cautelare, di gran lunga inflazionato, in un ordinamento in cui in linea di principio il carcere rappresenta l’extrema ratio, cui ricorrere solo laddove prevalenti esigenze di sicurezza lo richiedano. Invece, non solo si ricorre in maniera ordinaria alla pena detentiva, ma la si fa diventare mera custodia e repressione.
Basti pensare che 3 miliardi sono stati destinati al finanziamento del sistema carcerario lo scorso anno – a fronte di soli 280 milioni per il sistema di giustizia minorile e le misure alternative alla detenzione – dei quali ben il 68% sono utilizzati per la sola custodia e per il corpo di polizia penitenziaria, di gran lunga superiore alla figure appartenenti al settore propriamente trattamentale, come funzionari giuridico-pedagogici, assistenti sociali, mediatori e psicologi, il cui contributo è però fondamentale per vivere dignitosamente la propria pena. La media è di circa 90 detenuti per ciascun educatore, inoltre in più della metà degli istituti visitati da Antigone non vi è un direttore incaricato solo per quella struttura. Ciò comporta chiaramente dei complicati problemi di gestione della vita detentiva e uno scollamento difficile da rimarginare.
Le finalità rieducative sono così mere enunciazioni di principio che si dissolvono nel nulla in luoghi che non sono in grado neppure di essere umani: il regolamento penitenziario entrato in vigore nel 2000 prevede la necessità di una doccia in ciascuna camera di pernottamento, ma solo il 36% degli istituti monitorati si è adeguato a tale disposizione. Quasi il 50% delle carceri ha schermature alle finestre che non permettono il regolare passaggio di luce e aria, costringendo così le persone detenute a permanenze patogene e inumane, in particolare quando le temperature sono alte. Addirittura, nel 30% delle carceri manca acqua calda all’interno delle celle e in talune strutture ci sono ancora wc a vista.
Potremmo continuare così all’infinito per poi chiederci a cosa serva davvero una pena così congegnata, tipica di uno Stato che abbandona i suoi cittadini e svende illusioni securitarie, criminalizzando sempre più spesso le fasce più povere e deboli della popolazione.
Sì, le immagini di Santa Maria Capua Vetere ci fanno venire i brividi e molto ci sarebbe da dire sulle modalità con cui si è deciso di indagare su quanto avvenuto nelle carceri nella prima fase della pandemia, dato che al momento la Commissione ad hoc costituita per volere della Ministra Cartabia è formata da appartenenti alla stessa amministrazione penitenziaria, in assenza di figure terze e imparziali come Garanti e società civile. Ma non bisogna illudersi che i problemi del carcere si risolvano in tali casi specifici: tutto ciò che accade è espressione di un sistema malato e inumano, da cui non possono che nascere frutti malati e incattiviti.