Il Rapporto sulle tossicodipendenze del 2021, rilevato attraverso il Sistema informativo nazionale per le dipendenze (inserito nel più ampio NSIS, Nuovo Sistema Informativo Sanitario) ha l’obiettivo di analizzare quanto emerge con riguardo agli utenti dei Serd, la loro età, la loro provenienza, i contesti sociali e i loro bisogni. Analizzandone i dati, si può osservare innanzitutto quante persone hanno richiesto prestazioni sanitarie per dipendenze da sostanze stupefacenti o psicotrope e, in particolare, la modalità di accesso ai Serd che mostrano, per l’ultimo anno, un andamento decrescente per quanto riguarda i soggetti condottivi dall’autorità giudiziaria o da altri servizi sanitari. La maggior parte delle persone, in particolare se in età più adulta, richiede tali prestazioni in maniera volontaria e autonoma, in molti casi supportata dai familiari.
Sul territorio nazionale sono operanti 574 Serd (Servizi territoriali per le dipendenze), con lo scopo di cura, prevenzione e riabilitazione delle persone che hanno problemi di dipendenza. La natura territoriale di un tale ente parte dal presupposto che il soggetto più idoneo a farsi carico di un individuo dal punto di vista sanitario è quello a lui più vicino, per evitare un’astrazione del paziente stesso dal suo contesto sociale o dai suoi affetti più cari. Tuttavia, la realtà è spesso diversa dalle aspettative: salta subito all’occhio l’insufficienza di spazi e servizi se si considera che, nel solo 2021, si sono rivolti ai servizi per le tossicodipendenze ben 200mila persone e ne sono state assistite circa 123mila, mentre infermieri, medici e personale sanitario sono assolutamente carenti.
E, così, luoghi segreganti – come il carcere – vengono utilizzati come rimedi alla tossicodipendenza, producendo quella stessa emarginazione che molto spesso è alla base della dipendenza. Le ragioni sono da ritrovare nell’approccio punitivo di una legislazione oramai anacronistica e che, dati i tempi bui che attraversiamo, rischia addirittura di peggiorare. Basti pensare che attualmente quasi il 35% della popolazione carceraria è rappresentata da autori di reati legati alla droga. Al consumo e alla vendita si intende. Tra questi, ben l’80% sta scontando pene per reati inerenti al consumo o allo spaccio di cannabis, nonostante gli istituti penitenziari siano dai più descritti come covi di narcotrafficanti.
Allo stesso modo, si aggira intorno al 25% la percentuale di coloro che, al di là del reato commesso, hanno problemi di tossicodipendenza. Persone a cui difficilmente l’istituzione penitenziaria potrà offrire un percorso di riabilitazione individualizzato e che vada oltre la coatta astinenza, sempre ammesso che quest’ultima sia possibile e reale, in un luogo patogeno e promiscuo che rischia addirittura di diventare scuola di criminalità, oltre che di disagio. Parliamo inoltre di dati stimati al ribasso, se si considera che non sempre chi fa uso di sostanze stupefacenti lo dichiara espressamente.
Si pone quindi un primo ordine di problemi riguardante le cosiddette droghe leggere, il cui consumo coinvolge – stando ai dati diffusi dal Rapporto 2021 sulle tossicodipendenze – il 27.6% dei nuovi utenti dei Servizi territoriali sanitari e solo il 9.1% dei pazienti già in cura. A nulla sono valsi i tentativi registrati in questi anni per la legalizzazione della cannabis, compresa la raccolta firme finalizzata alla presentazione di un referendum – per il quale gli italiani hanno dimostrato un interesse enorme – per mettere fine alla criminalizzazione dei suoi consumatori e ammettere, come è stato fatto in molti altri Paesi europei, che le politiche proibizioniste non hanno sortito alcun effetto.
Si tratta ormai di una sostanza di cui, anche da parte delle Nazioni Unite, è stata affermata la non pericolosità e anzi, a determinate condizioni, il suo uso a scopo curativo e terapeutico. Eppure, tuttora è un argomento che in Italia rimane un tabù, soprattutto se si considerano le proposte avanzate durante la campagna elettorale estiva che gridano al proibizionismo totale e alla repressione più cupa, attraverso un inasprimento delle pene.
Nessun tentativo, quindi, di indagare sulle cause profonde delle situazioni di tossicodipendenza, partendo da un’analisi sociale, oltre che di ciascun individuo e dei suoi bisogni. Il tutto si riduce a una scelta volontaria, consapevole, come se l’individuo potesse decidere dall’oggi al domani di smettere. La narrazione malata e superficiale della persona tossicodipendente come di colei che ha scelto deliberatamente di sbagliare, di farsi del male o addirittura di cercare divertimento con una tale modalità, non è solo fuorviante ma è dannosa per chi ha bisogno di cure, oltre a incattivire la collettività, ancora una volta, nei confronti dei marginali.