Perché fa questo? Lei ha settantatré anni.
«Voglio cercare di mettere il dito nella piaga e ancora una volta dare visibilità a questa ingiustizia che perseguita chi lotta per il diritto di tutti. Inutile fare i neo ambientalisti che accolgono le richieste dei giovani quando si devono recuperare voti e poi, nella realtà, giustificare e avallare una devastazione perfino priva di senso economico. Questo mio gesto è contro i sepolcri imbiancati: per mettere in luce questo e riportare l’attenzione pubblica che mi pare si stia adattando agli orrori nei confronti di chi lotta, io andrò in carcere. Il dovere che sento è di non genuflettermi: di non chiedere sconti o scuse. Per dignità e libertà. Sono convinta che quel mondo buono che ancora esiste intorno a me lo troverò anche in carcere, dove incontrerò gli ultimi degli ultimi. Farò esperienze che mi serviranno, sebbene sia una donna anziana».
Settantatré anni, aria serena, una grossa montatura a coprirle il viso. La frangetta quasi la urta. Lo sguardo è tranquillo, la sciarpa rossa come la scritta sul drappo bianco che mostra fiera prima di alzare il pugno: NO TAV. Una x cancella il treno che ammazza la Val di Susa. L’ultima immagine del 2019 è il ritratto di una vendetta di Stato, l’arresto di una donna che rappresenta una battaglia, un’intera classe sociale, il volto più noto del movimento contro l’Alta Velocità.
È il 30 dicembre quando la pasionaria Nicoletta Dosio viene caricata su un’auto della polizia. Ad attenderla un anno di reclusione per violenza privata e interruzione di pubblico servizio. Con altri, ha partecipato al blocco autostradale del 3 marzo 2012, quando la battaglia contro la TAV infiammava ancora il dibattito pubblico.
Un arresto, il suo, che suscita polemica e indignazione ma che si rivela, in realtà, l’epilogo più scontato di una stagione politica e culturale che ha spogliato il Paese di molte delle sue foglie più verdi, complice un vento che sta cambiando il volto dell’Italia come dell’Europa intera indebolendo i rami già fragili dell’albero della democrazia. In particolare, nell’ultimo biennio – lungo come forse pochi altri – le folate sono parse arrivare soltanto da una direzione, preludio di quegli anni di cui, tra un negazionista e un altro, i libri di storia ancora provano a raccontare e che Matteo Salvini ha riportato in auge con le sue politiche pericolosamente nostalgiche.
Dai confini alle mafie, dai pieni poteri alle crociate cristiane e misogine, l’intolleranza si è trasformata presto nel tratto distintivo prima di un unico partito, poi di un elettorato sempre più ampio e un tempo eterogeneo, di colpo mescolatosi sotto una bandiera che, dice, tricolore ma che ricorda sfumature e simboli ben lontani da una sana unità nazionale.
Non è una novità, in fondo, che da quando il Carroccio dell’ex Ministro dell’Interno, oggi Senatore, ha rinvigorito i propri numeri, l’Italia ha intrapreso un cammino all’indietro imbattuto in epoca moderna e che, tuttavia, sembra soddisfare molti dei nostri concittadini, repentinamente destatisi da un sonno politicamente corretto tramutatosi in libertà di offesa e di violenza psico-fisica. A subirne la veemenza, tra le altre, tre categorie costantemente sotto attacco – donne, omosessuali, immigrati –, ormai ai vertici di una cosiddetta piramide dell’odio che colloca l’Italia tra i Paesi percepiti come più omofobi e razzisti dell’Unione Europea, nonché all’ultimo posto tra i maggiori Stati avanzati in termini di pari opportunità, come denunciato lo scorso anno dal Global Gender Gap Report del World Economic Forum. Dati purtroppo facilmente verificabili ripercorrendo appena le principali tappe del governo gialloverde e, anche, di quello giallorosso, non così discontinuo rispetto al suo predecessore.
Basti pensare ai decreti sicurezza ancora in vigore, alle proposte di Pillon, al Congresso di Verona o alle iniziative pro-life e antiabortiste – solo per citare alcuni esempi – per farsi un’idea chiara di quali sono oggi le priorità di un Paese che non fa più figli, che non crea le condizioni per farne, che non ha lavoro, che desertifica il Sud tra clima e partenze, che invecchia aspettando la pensione e muore sulle autostrade, insomma un Paese senza presente né futuro, ma strenuamente impegnato in battaglie di distrazione di massa e mercificazione di chi diritti non ha. Soprattutto se disperato su un barcone.
Ma, al di là degli immigrati, è nelle donne che l’opinione pubblica e lo Stato sembrano aver individuato il proprio nemico, l’avversario da combattere a tutti i costi, come a volerne distruggere quelle personalità appassionate che mettono in pericolo una certa idea di società, sminuendone il valore intellettuale e umano di cui il mondo pare accorgersi e il maschio nostrano spaventarsi. Il gioco è sempre lo stesso e le cronache non fanno altro che riproporcelo secondo uno schema fisso: un nome, un volto, una storia vengono gettati in pasto ai leoni da tastiera, cani fedeli dei leoni da elezione, e la macchina dello stupro mediatico si attiva automaticamente. Quel nome, quel volto e quella storia sono violati per sempre.
A tal proposito, ultimi a iscriversi a un elenco che ha visto la propria inaugurazione con una bambola gonfiabile accostata all’ex Presidente della Camera Laura Boldrini, quelli di Rula Jebreal, di colpo finiti al centro dell’attenzione per un’indiscrezione che voleva la giornalista – e non la valletta, come l’ha definita Matteo Salvini, sperando di offenderne l’intelligenza – al 70esimo Festival di Sanremo. E, invece, la per molti poco italo e troppo palestinese reporter è stata costretta all’esclusione dalle polemiche sovraniste e censuratrici di una RAI che, degna erede di quell’editto bulgaro di berlusconiana memoria, ha definito questioni di opportunità. Sì, ma per chi? Di sicuro non per la dimenticabile kermesse canora e per gli spettatori. Forse e davvero, soltanto per Rula Jebreal, svincolatasi – ancor prima che avesse inizio – da un esame attento del suo abito, del suo portamento e delle sue forme, a discapito di una qualsiasi proposta socio-culturale portata all’Ariston con la professionalità che la contraddistingue.
La giornalista, tuttavia, è soltanto la più recente vittima di quel gioco di cui sopra. Prima di lei, in un abbozzato ordine cronologico, la stessa Nicoletta Dosio e persino la Senatrice Liliana Segre, rea – in qualità di sopravvissuta all’Olocausto – di coltivare una memoria minacciosa per la nuova ma vecchia destra che ormai domina la politica dei nostri giorni. D’altro canto, la fallocrazia imperante da cui sono ammaliate anche molte donne – qualche volta addirittura travestite da leader – non risparmia nessuno.
Come nel caso di Ilaria Cucchi, la straordinaria quanto temeraria sorella di Stefano, colpevole di aver squarciato il velo di Maya dell’omertà in divisa, o, ancora, di Greta Thunberg, insultata perché giovanissima e affettata dalla sindrome di Asperger – a quanto pare, motivo in più per i giustizieri del web –, che ha urlato al cambiamento climatico creando una coscienza prima inesistente. Nomi e volti, i loro, che hanno segnato come uno spartiacque nella narrazione contemporanea, ergendosi a icone di un odio ingiustificato, una cattiveria gratuita riversatasi su di essi come su chiunque ha provato a sposarne le cause facendole proprie. Simbolica, in tal senso, è l’Antigone dei giorni odierni, quella Carola Rackete capitano della Sea-Watch che alla necessità della legge ha sapientemente anteposto il desiderio di giustizia, scatenando il dibattito sulla disobbedienza civile.
Vittima della medesima ira salviniana è, poi, anche un’altra donna, una di cui si è parlato tanto per dimenticarsene presto, Maria Rosa dell’Aria, l’insegnante siciliana ancora sospesa dall’incarico perché brava al punto da lasciare che gli alunni sviluppassero il proprio senso critico, lo stesso che gli articoli 21 e 33 della Costituzione tutelano a scanso di equivoci. A scanso di censure e di politiche discriminatorie e totalitariste, quelle che oggi, in Italia, mirano alla leadership e alla ridefinizione della nostra già vecchia società.
Sono diverse, dunque, le protagoniste di questi ultimi anni, donne che ci hanno messo la faccia, l’indomabile coraggio, la smisurata sensibilità. Tutte, o quasi, vittime dell’odio, di un odio e di una vendetta che lo Stato usa a suo piacimento per il gusto della repressione, della limitazione della libertà, del contrasto al dissenso che significa pericolo, messa in discussione, rivoluzione. Per il gusto della privazione del lavoro, della parola, del diritto. Ma se bastano poche donne a spaventare questo malsano apparato oppressivo, cosa succederebbe se alle loro voci unissimo anche le nostre? Forse, la massa diventerebbe popolo. E, allora, sarebbe tutta un’altra storia.
«So di avere con me il sostegno delle mie sorelle e dei miei fratelli di una lotta bella e irriducibile, perché porta nelle sue mani la memoria del passato, l’indignazione per la precarietà presente, la necessità di un futuro più giusto e vivibile per tutti. Se andrò in carcere, non me ne pentirò, perché, come scrisse Rosa Luxemburg, dalla cella dove scontava la sua ferma opposizione alla guerra, “mi sento a casa mia in tutto il mondo, ovunque ci siano nubi, e uccelli, e lacrime umane”».