Dalla scorsa estate è possibile trovare in libreria Quello che resta, la raccolta fotografica di Alberto Gandolfo a cura di Benedetta Donato, pubblicata da Silvana Editoriale. Esposta fino al 24 novembre presso le Officine Fotografiche di Milano, si tratta di 35 scatti che ritraggono i volti dei familiari delle vittime di 27 vicende di cronaca italiana degli ultimi cinquant’anni, a cominciare dalla morte di Peppino Impastato, che apre le pagine del volume, fino ad arrivare alla foto di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ucciso da due carabinieri.
Tra i vari nomi si leggono quelli della moglie di Salvatore Pinelli, ferroviere anarchico che morì precipitando dalla finestra della questura di Milano nel 1969, dei familiari di Eluana Englaro, delle vittime dell’Ilva di Taranto, della strage di Viareggio e di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso dalla mafia nel 1992.
Un’indagine che il fotografo palermitano ha avviato nel gennaio del 2017 e che è finalizzata a puntare i riflettori su quelli che restano: molto spesso ricordiamo i volti delle vittime degli eventi di cronaca e giudiziari, ma poco o niente sappiamo di chi non solo vive il dolore della perdita, ma si ritrova anche a spendere tutta la propria vita alla ricerca di una verità che non sempre collima con la realtà o con la giustizia delle aule di tribunale. E allora Gandolfo ha deciso di incontrare queste famiglie, di passarci del tempo, di guardare al di là dell’immediata narrazione che della vicenda si fa o del subitaneo dolore che segue la tragedia. Negli scatti non necessariamente si scorgeranno volti sofferenti e da questo possiamo trarre due dati, forse non così scontati: il primo, che il dolore non sempre deve essere venduto e spiattellato sui giornali per essere veritiero; il secondo, che chi sposa una battaglia la deve portare fino in fondo e per fare questo ha bisogno di forza e determinazione, che vanno al di là della sofferenza.
Sono persone ritratte nella loro quotidianità, che portano sul volto segni più o meno tangibili di quanto accaduto nelle loro vite. E forse il modo migliore per conoscerle e per fare proprie certe storie e certe lotte è guardarne il viso, gli occhi, scrutarne lo sguardo. Probabilmente questa intenzione si evince anche dal tipo di strumento utilizzato, istantanee che creano tra Gandolfo e coloro che vengono ritratti un contatto diretto e immediato, in un formato molto piccolo che costringe l’osservatore ad avvicinarsi alla foto per coglierne il senso, a guardare i particolari, ad andare oltre l’apparenza.
Rendere visibili i volti dei familiari è il mezzo per tenere alta l’attenzione sull’accaduto, che non è un semplice lutto personale bensì un evento che riguarda l’intera collettività. Gli occhi di quelli che restano illuminano, dunque, le zone d’ombra del nostro Paese, fatto anche di processi insabbiati, di ingiustizie mai riscattate e di numerose vittime innocenti.
Sfogliando le pagine del volume ci si immerge totalmente nelle morti tragiche cui le foto fanno riferimento, si va indietro di dieci anni, di venti, talvolta di cinquanta, e si ricordano i servizi televisivi sulla vicenda, gli articoli che abbiamo letto e i commenti che abbiamo sentito in giro. In qualche occasione potremo pensare che giustizia è stata fatta, che la verità è venuta a galla, come nel caso di Stefano Cucchi, in altri non potremo far altro che pensare che abbiamo fallito, come nel caso di Borsellino. E allora, e forse questo è l’intento dell’intera indagine, dovremo ricordarci che quella battaglia è anche nostra e che è compito di tutti noi lottare perché una simile tragedia non si ripeta più.