Alla sveglia delle 6.30 non sono mai riuscito ad abituarmi. Suonava stridula, aggressiva, soffocante. Mi strappava dal sonno caldo, cullato dal tepore del duvet, e mi gettava nel gelo del mattino di quella mia città del nord.
A Edimburgo ho vissuto poco meno di un anno, e il freddo scozzese è una di quelle cose che non dimenticherò mai, soprattutto quello di prima mattina. Inibisce gli arti, scoraggia il movimento, taglia la faccia con i suoi soffi di vento.
Lavoravo a pochi metri da casa, una botta di fortuna. Non ero costretto ad alcuna linea di autobus, tantomeno a faticose passeggiate attraverso i sette colli della città (già, proprio come Roma) sfidando il gelo dell’alba. Trovai, infatti, prontamente impiego in un caffè, una catena italiana elegante con grosse poltrone in pelle e larghi tavolini. Un luogo accogliente, discreto, nel cuore della strada principale di quel piccolo quartiere residenziale dal nome poetico: Morningside.
Morningside era sede di case di bell’aspetto, villette curate con il classico giardino britannico sul retro e garage fronte strada, palazzi di massimo tre piani; un vicinato, insomma, tranquillo e cordiale, gentile, come le tante vecchiette che senza avvertire il peso degli anni quotidianamente passeggiavano per quelle strade.
Quel giorno il mio turno sarebbe terminato alle 14:00, giusto il tempo di cambiami, indossare la tuta, saltare sul 36 direzione Ocean Terminal, e attraversare mezza città per recarmi presso la High School dove insegnavo pallacanestro ai ragazzi della Broughton.
La mattina, come al solito, cominciò con la visita del lattaio, poi con quella dei netturbini della zona, il postino, la direttrice della Public Library appena al marciapiede di fronte, la signora del soya milk grande con i suoi anelli di pietra ogni giorno diversi, infine i pazienti della clinica psichiatrica lì a pochi passi con i quali avevo ormai stretto un rapporto molto più sincero di tante finte cortesie che ero costretto ad adoperare con i cosiddetti clienti “normali”.
Avevo già usufruito del break delle 9:30 e mangiato il consueto croissant con prosciutto, mentre attendevo la bellissima e romantica coppia di anziani che, ogni giorno, puntuale, veniva a far visita al nostro store e dava al mio nome un accetto scozzese che lo rendeva più dignitoso di quanto spesso non avessi pensato valesse.
Quella donna, però, non passò inosservata. Entrò in un attimo di calma, nessuna fila al bancone, il mio collega spagnolo addirittura approfittava di quell’istante per operare il re-stock del frigorifero. Tutte le donne a Morningside erano ben vestite, distinte, ma quella, nel suo cappotto beige, leggermente aperto sul petto, lo era ancor più delle altre. Bionda, elegante come forse nessuna ancora incrociata fino a quel momento. Un sorriso probabilmente consapevole, comunque gentile.
Hi, can I help you, Madame? Posso aiutarla? Come sempre, come a una cliente qualunque.
A caffelatte. Altro bel sorriso. Mi girai verso la macchina del caffè e cominciai a riscaldare il latte, quando un flash mi squarciò la mente, come una saetta che lasciava la sua cicatrice sulla mia fronte. Era davvero lei? Mi voltai a osservarla di scatto, ricambiando il sorriso. Il suo si allargò. Non avevo più dubbi. Pagò, ringraziò e andò via, lasciandomi con una storia da raccontare, lei che di storie da raccontare ne è maestra assoluta.
Non sono mai stato un assiduo fan di Harry Potter, e quel non essere ossessionato dal maghetto più famoso del mondo mi scoraggiò dal provare a scambiare due chiacchiere con una delle autrici più autorevoli dell’intero globo, di cogliere al volo un’occasione che mai più mi si sarebbe ripresentata. J. K. Rowling abitava a soltanto duecento metri da casa mia, lo scoprii non appena il mio turno terminò, passando al setaccio ogni informazione possibile che Google fosse in grado di offrirmi.
Prima di andar via, chiesi al mio amico e collega di Maiorca se l’avesse vista e riconosciuta. Volevo la conferma di non essermi illuso. Niente da fare.
È passata qualche volta in passato, abita qui accanto. È probabile che fosse lei. Mi disse.
Era lei. Una cliente, di quelle fedeli che ogni mattino riempiva una di quelle sedute comode in compagnia di un buon libro, di cui spesso discutevamo, certificò quell’esperienza che avrei raccontato a chiunque. Era J. K. Rowling, la scrittrice di Harry Potter.
Condì il tutto con l’indirizzo preciso di casa dell’autrice, con le abitudini che aveva in quel suo quartiere, con la spesa che era solita fare presso lo stesso super dove io compravo la succulenta carne rossa di Aberdeen.
Hanna mi ripeté sempre, ogni giorno, per otto mesi: Cosa ci fai qui? Sei uno scrittore. Devi scrivere, non servire il latte a una vecchia come me!
Penso spesso a quel mattino a Mornigside, a J. K. Rowling, ad Hanna. Penso spesso a quelle sue parole, così come mi capita, nei momenti di malinconia di ripensare a quel lavoro che odiavo ma che mi ha insegnato la fatica di insistere per ciò in cui credo, per ciò in cui Hanna mi aveva sempre spinto.
Le promisi che una volta pubblicato, in qualsiasi lingua, sarei tornato a Edimburgo, in quel caffè dove si recava da anni ogni giorno, e le avrei consegnato personalmente una copia del mio primo romanzo. In fondo, le sono debitore di una storia.