Terminato il rito funebre per l’ennesima vittima innocente di una criminalità vigliacca che ha sparato alle spalle di un giovane musicista a pochi passi da Palazzo San Giacomo, sede della massima carica della città di Napoli, tutto torna alla normalità. La commozione, il dolore, la rabbia si trasformano in rassegnazione, in senso di impotenza. Anche le autorità rientrano nei loro uffici, consapevoli di doversi riaffacciare alla prossima occasione per assicurare impegno e vicinanza alla famiglia di turno. Si conclude così il saluto a Giovanbattista Cutolo, il cui nome va ad arricchire il tragico elenco di vittime innocenti della criminalità di cui la Campania detiene il triste primato in Italia.
Questa volta però, passata la comprensibile commozione generale e la considerevole partecipazione di una parte seppur minima della città, è scattata anche la reazione di alcuni intellettuali e di semplici cittadini che attraverso i social hanno voluto prendere le distanze dalle parole dell’Arcivescovo di Napoli, che a termine della sua predica ha chiesto perdono alla vittima: «Tutti noi colpevoli della tua morte». Se è vero che spesso, in casi analoghi, si ricorre troppo semplicisticamente al noi pur non avendo una responsabilità diretta sull’accaduto, nella circostanza e con una più attenta lettura del testo dell’omelia, quel pronome è più che pertinente.
Non si parla di responsabilità diretta, ma della partecipazione al male collettivo e, peggio, all’indifferenza, a ciò che rifiutiamo di vedere e di sapere: l’aver sostenuto una classe dirigente inadeguata, corrotta, incapace di intercettare e affrontare i disagi di territori da sempre abbandonati, periferie divenute negli anni luoghi di deportazione con politiche di edilizia popolare scellerate; l’aver tenuto (e tenere ancora) in vita i ras della politica locale e nazionale per interessi di parte a danno delle comunità; l’indifferenza all’evasione scolastica che di recente in città ha fatto registrare oltre duemila abbandoni, tra quelli segnalati, nei quartieri più a rischio quali Ponticelli, Barra, San Giovanni; il lavoro a tre euro l’ora e oggi, grazie all’abolizione del reddito di cittadinanza, anche meno; pagare la metà di quanto riportato sullo statino pena il licenziamento: non sono tutti tasselli di un mosaico di responsabilità collettive? Non costituiscono per i cristiani gravi peccati sociali, attentati alla solidarietà umana? Quel noi ci sta tutto.
Non è forse responsabilità collettiva la degenerazione politica, sociale e morale di questo Paese? L’aver sostenuto, attraverso i rappresentanti nelle istituzioni, manovre che non favoriscono il lavoro, la giustizia, l’istruzione, la buona sanità pubblica, il sostentamento alle fasce più deboli? L’aver sostenuto il più vergognoso periodo storico dei tempi più recenti, il berlusconismo ancora duro a morire in un esecutivo che espone con orgoglio la bandiera della guerra ai poveri lasciando per strada migliaia di famiglie?
Le risorse occorrono per sostenere la follia del conflitto ucraino e tra non molto saranno i pensionati a essere penalizzati. In fondo, Giorgetti, in un raro momento di verità, lo ha affermato a chiare lettere, nonostante la capo-famiglia Presidente del Consiglio cerchi in tutti i modi di convincerci che i fondi destinati all’Ucraina non sono sottratti agli italiani. È il caso che si coordini con il Ministro del Tesoro e ci faccia sapere da quale pozzo attinga.
La cultura dell’indifferenza, del tirare a campare, del fregarsene dello stato di abbandono di zone popolari, l’enfatizzazione di certa letteratura capace di raccontare soltanto il male, il peggio di un’umanità che si sostituisce allo Stato e diventa ultima spiaggia per chi non ha nulla perdendo anche un minimo di speranza. Impossibile farsi da parte e dire io non c’entro quando un ragazzo ha già scalato parte di quella strada criminale ad appena sedici anni e senza perder tempo infila tre proiettili alla schiena di un altro giovane cresciuto, in cambio, in un contesto sociale che lo ha favorito e gli ha permesso di coltivare studio e passione per la musica.
I benpensanti, quelli che si chiamano fuori da ogni responsabilità, dovrebbero chiedersi chi ha consentito che una parte della città crescesse fuori da ogni regola di convivenza civile, chi ha sostenuto e sostiene taluni personaggi della mala politica, chi con troppa superficialità e con troppa attenzione ai propri profitti ha enfatizzato modelli entrati a far parte della vita di ogni giorno di giovani venuti su in contesti difficili, nella povertà educativa e in quella materiale o con sistemi alternativi di sopravvivenza.
Assenza dello Stato, di istituzioni elette dai cittadini poi presenti ai riti funebri, a dare pacche sulle spalle a genitori privati del bene più grande. E, allora, ha più che ragione don Mimmo Battaglia: «Quella mano armata anche da noi», dall’indifferenza o, peggio, dalla consapevolezza di sostenere da decenni una classe politica fatta da sprovveduti e improvvisati, di cognati e sorelle, di amici e amici degli amici, di odiatori seriali di poveri e immigrati, complice un’informazione deviata e bugiarda.
Quella mano armata anche da noi. Forse avremmo preferito che don Mimmo fosse stato ancora più diretto, richiamando quanti nelle istituzioni compiono scelte scellerate e ben mirate che tra non molto potrebbero portare a termine spaccando ulteriormente il Paese e impoverendo un Mezzogiorno stuprato anche dai parlamentari del Sud, dal silenzio di gran parte di intellettuali che oggi a gran voce si chiamano fuori ma che difficilmente potranno autoassolversi. Nel frattempo sembra che sia bastato l’abbraccio della Presidente Meloni per rassicurare la mamma di Giovanbattista: «Lo Stato non ci abbandona». Auguriamoci che sia così e non sia invece l’ennesima promessa da aggiungere al lungo elenco degli impegni disattesi.