Per essere un piccolo emirato situato in una lingua di deserto che si protende nel Golfo Persico, il Qatar è da tempo ben al di sopra del suo peso nei corridoi del potere occidentale. Sembriamo accorgercene solo oggi, all’indomani dei Mondiali più discussi di sempre e della miccia che ha acceso lo scandalo nel cuore delle istituzioni europee, eppure i segnali – per chi vuole vederli – chiedono attenzione da molto. E troppo ancora non hanno raccontato.
Mai, come negli ultimi mesi, si era tanto parlato di Qatar ed Emirati Arabi. Benché le violazioni di diritti umani e civili fossero già in atto, benché l’attribuzione dei Mondiali al Paese di al-Thani fosse oggetto di tre inchieste giudiziarie per corruzione in Svizzera, Stati Uniti e Francia e nonostante gli almeno 6500 lavoratori morti per la costruzione degli impianti che dal 20 novembre hanno ospitato la manifestazione sportiva più importante, soltanto all’alba della fase a gironi e poi adesso, che l’Argentina ha trionfato, si è aperto il Qatargate, il cancello dello scandalo probabilmente più grave della storia del Parlamento Europeo che ha portato all’arresto di alcuni e al sequestro, per ora, di oltre un milione di euro in contanti trovati negli uffici e nelle abitazioni delle persone coinvolte.
Ma torniamo, per un attimo, al 2010, anno di assegnazione al Qatar dei Mondiali di Calcio 2022. All’epoca, Presidente della FIFA era lo svizzero Joseph Blatter – lo stesso che oggi definisce quella scelta un errore perché il Qatar è una nazione troppo piccola e il calcio è troppo grande per quel Paese. Un’assegnazione inaspettata a cui fece seguito, nel 2015, la squalifica ai danni dello svizzero – 47 capi d’accusa tra cui associazione a delinquere, frode telematica e riciclaggio di denaro – e il processo conclusosi la scorsa estate al fianco del Presidente UEFA Michel Platini, il principale promotore qatariota. A lui e al Presidente Nikolas Sarkozy si deve la famosa cena all’Eliseo, nel novembre del 2010, in presenza anche dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani, che è poi stata al centro di un’indagine per corruzione. A lui l’ex FIFA imputa la responsabilità della Coppa del Mondo nel deserto, dimenticando una piccola, affatto trascurabile, ammissione di colpevolezza: «Cosa faresti se il tuo Presidente ti chiedesse qualcosa?». E, in effetti, più di qualcosa è stato fatto.
Sedici mesi dopo la scelta del Qatar ai danni degli Stati Uniti d’America – a cui, dopo Russia 2018, sembravano dover essere assegnati i Mondiali come gesto di pacificazione geopolitica – gli sceicchi acquistarono jet da combattimento francesi per 14,6 miliardi di dollari. Da ben prima che, nel sollevare la Coppa del Mondo, Messi indossasse un bisht, il mantello tradizionale arabo simbolo di prestigio, regalità e ricchezza, gli emiri avevano già dato prova del loro strapotere. Oggi, in occasione della finale e, probabilmente, dei Mondiali più visti di sempre, ne hanno solo offerto una resa plastica, tangibile, a coprire una maglia (quella dell’Argentina) e un intero sport per affermare chi è che comanda. Soprattutto, chi ha comprato chi.
Per gran parte del XX secolo, infatti, il Qatar è stato un arido ristagno del Golfo Persico. La sua gente era povera, arretrata rispetto ai vicini di casa sauditi, tristemente anonima. Poi, nel 1971, la svolta con la scoperta del più grande giacimento di gas al mondo. Da allora, all’ombra di Doha si è sviluppato un Paese ricco, improvvisamente interlocutore dei grandi del pianeta. È in quest’ottica che va letto il desiderio di ospitare la manifestazione sportiva, nel racconto della propria storia e della propria potenza su un palcoscenico globale sul quale il Qatar ha iniziato ad affacciarsi proprio attraverso il calcio con l’acquisto, nel 2011 (non molti mesi dopo l’Eliseo), del Paris Saint-Germain FC tramite il Qatar Sports Investments.
Il gas naturale e il petrolio spiegano, infatti, soltanto metà della storia di come il piccolo emirato più ricco della Terra sia riuscito a imporsi e a influenzare, plasmandolo, il processo decisionale da Washington a Bruxelles, rifacendosi a donazioni al mondo accademico, a investimenti in media e grandi aziende, istruzione e clima. Stando a Jonathan Schanzer, vicepresidente senior per la ricerca presso la Foundation for the Defense of Democracies, «il Qatar ha esercitato la sua immensa ricchezza in modi che violano le norme, se non le leggi, in tutto il mondo; non c’è praticamente nessuna capitale occidentale, per non parlare di quelle sudamericane o asiatiche, che non sia stata colpita in qualche modo». Schanzer riconosce che gran parte di ciò che i qatarioti fanno per cercare di influenzare la politica occidentale e l’opinione pubblica è legale, ma la portata e l’estensione sollevano non pochi interrogativi.
È stato lo sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani, padre dell’attuale emiro, ad avviare il processo di utilizzo delle vaste risorse energetiche e della ricchezza del Qatar per trasformare l’emirato in un attore globale quando si tratta di soft power. Basti pensare alla spesa di più di un miliardo di dollari per costruire la base aerea di Al Udeid a sud-ovest di Doha, ora sede della più grande installazione militare americana nel Golfo – non a caso, tra le campagne di influenza sotto indagine c’è anche il coinvolgimento multimilionario di funzionari qatarioti che avrebbero invitato 250 amici e collaboratori dell’ex Presidente Donald Trump in viaggi completamente pagati nella capitale – o ai massicci investimenti e partecipazioni significative nelle principali società e istituzioni finanziare britanniche, francesi e tedesche (nel caso della Francia grazie a una serie di agevolazioni fiscali).
Fondato nel 2005 per gestire la vendita di petrolio e gas naturale, il Qatar Investment Authority investe soprattutto nei mercati nazionali e internazionali (Stati Uniti, Europa e Asia) al di fuori del settore energetico: da Barclays a Volkswagen, Porsche, Harrods, France Telecom, Total, Sainsbury’s e Miramax, per arrivare a Credit Suisse e ai canali televisivi francesi beIN Sport, la presenza degli emiri è praticamente ovunque. Come se non bastasse, l’amministratore delegato di beIN, Nasser al-Khelaifi, è il presidente del PSG, ricopre un posto nel consiglio di amministrazione della UEFA e, dallo scorso anno – dopo lo scandalo Superlega –, è anche a capo della European Club Association.
Soltanto nel giugno del 2013 si stima che il patrimonio gestito dal QIA fosse di circa cento miliardi di dollari, di cui trenta investiti in Gran Bretagna, dieci in Francia e cinque in Germania. Nel 2014 viene poi lanciato un fondo da dieci miliardi da capitalizzare in Cina e, nel 2o15, ufficializzata l’intenzione di investirne altri trentacinque negli Stati Uniti nel quinquennio successivo.
Attualmente, il Qatar ospita otto campus satellite di prestigiose università occidentali – americane, britanniche e francesi – su un vasto sito di dodici chilometri quadrati noto come Education City, alla periferia della capitale. L’impegno globale di Doha attraverso l’istruzione, la cultura e l’arte si concretizza nella Qatar Foundation, che è vista nell’emirato come uno Stato nello Stato: uno degli stadi più ambiziosi della Coppa del Mondo si trova proprio nella Education City. Con lo stesso scopo, poco culturale, molto geopolitico, il Qatar ha donato un miliardo di dollari alle università statunitensi diventando di gran lunga il più grande finanziatore straniero dell’istruzione superiore americana, secondo il gruppo di sorveglianza Project on Government Oversight.
Appare chiaro, dunque, quanto il Qatargate abbia origini decisamente lontane. Una bomba scoppiata oggi, ma lanciata già da tempo su tutto il mondo che conta. Le ricostruzioni sulla vicenda sono ancora parziali, ma le prime rivelazioni hanno già messo in stato di accusa eurodeputati, funzionari e assistenti, in larga parte del Partito Socialista Europeo. Attualmente, in stato di arresto ci sono Eva Kaili – la cui difesa del Qatar come «Paese all’avanguardia nei diritti dei lavoratori» ora trova ragion d’essere –, Pier Antonio Panzeri, ex presidente della Sottocommissione per i diritti umani del Parlamento Europeo, Francesco Giorgi, compagno di Kaili, assistente parlamentare e fondatore della ONG Fight Impunity, e Niccolò Figà-Talamanca, a capo della ONG No Peace Without Justice. Persone che avrebbero agito in modo da indurre decisioni favorevoli al Qatar da parte di Bruxelles. Le accuse formali sono di associazione a delinquere, corruzione e riciclaggio di denaro.
Le indagini dimostrano che c’è una rete internazionale che lavora per conto del Qatar e – notizia delle ultime ore – persino del Marocco. Poco importa, però: l’emirato ha avuto i Mondiali che voleva, i Mondiali di cui aveva bisogno. A Doha interessava probabilmente una procedura in particolare, quella riguardante la liberalizzazione dei visti per i propri connazionali, una questione piuttosto tecnica, ma molto significativa.
Ad aprile 2022 la Commissione Europea aveva proposto un’esenzione dall’obbligo del visto per i cittadini di Qatar e Kuwait, subordinata a determinate condizioni che i due Paesi avrebbero dovuto soddisfare. Una modifica del regolamento comunitario il cui processo legislativo prevede che Parlamento e Consiglio adottino ognuno una propria posizione sul tema prima di negoziarla tra loro. La relazione è stata votata il primo dicembre e il risultato ha proposto l’esenzione dal visto per i cittadini di Qatar e Kuwait, Ecuador e Oman, approvata con quarantadue pareri favorevoli e sedici contrari.
Quando scrivevamo che per accusare l’Europa che, a sua volta, accusa la FIFA e il Qatar, Gianni Infantino ha parlato di ipocrisia. Una parola forte, politica più che sportiva, a sottolineare il ruolo d’affari che ricopre la Federazione. Una parola pronunciata dalla persona sbagliata che, tuttavia, ben riassume ciò che Qatar 2022 è: una vergogna per la quale nessuno è esente. Tv, stampa, giocatori, nazionali, politica, spettatori, intendevamo proprio questo.
Certo, non avevamo ancora conosciuto il Qatargate, ma già ne subodoravamo l’olezzo di marcio, di sportwashing, di un evento che andava oltre lo sport e che rappresentava, per Doha, l’opportunità imperdibile di mostrarsi al mondo in tutta la sua grandeur. E su cosa si basava questa grandezza? Petrolio, gas, soldi. Tutti motivi per cui l’Occidente continua a inginocchiarsi al sultano.