Era il 23 maggio 1994 quando Clint Eastwood, allora presidente della giuria del Festival di Cannes, proclamò Pulp Fiction vincitore della Palma d’Oro. Seguirono a valanga un milione di altri riconoscimenti, fino all’Oscar per la miglior sceneggiatura un anno dopo. Da allora, è esistito un prima e un dopo Pulp Fiction.
Pochi film possono fregiarsi di essere diventati degli spartiacque nella storia del cinema. Mi scuseranno eventuali storici, ma credo che la dirompenza del fenomeno Tarantino nella settima arte sia paragonabile, per la portata rivoluzionaria, per l’impatto culturale, per la giovane età del regista e per la celere acclamazione di genialità attribuitagli, soltanto a Orson Welles che, ad appena 26 anni, nel 1941 firmò Quarto potere (Citizen Kane), pellicola sovvertitrice sotto molti punti di vista, sia formali che tecnici e narrativi. Anche per il capolavoro di Welles ci fu un prima e un dopo nella storia del cinema, con la differenza che l’ingombrante genio non riuscì a capitalizzare il successo del suo primo film. Trovandosi spesso in contrasto con le produzioni, infatti, fu costretto a racimolare fondi qua e là, con partecipazioni anche a progetti di serie b, per finanziare i suoi più personali, spesso rimasti incompiuti. Tarantino invece, dopo il riconoscimento mondiale della pellicola del ‘94, fu coccolato dai fratelli Weinstein della Miramax – lasciamo ad altra sede il caso delle molestie –, i quali gli diedero sempre carta bianca.
Ma cos’è che rese Pulp Fiction così diverso da tutto quello che era venuto prima, tanto da far diventare il nome del suo regista un attributo? A chi non è mai successo almeno una volta nella vita di pronunciare l’aggettivo tarantiniano, magari anche a sproposito? Perché ancora oggi, dopo 25 anni, viene celebrato? Infine, è ancora possibile dopo decenni e fiumi di inchiostro, dire qualcosa di nuovo su questo film?
È quasi paradossale cercare dei discorsi originali su una pellicola che della conversazione logorroica e apparentemente futile ha fatto la sua cifra stilistica. Sì, perché se c’è una caratteristica che contraddistingue il cinema di Tarantino in generale – di cui Pulp Fiction ha costituito il paradigma dopo la riuscitissima prova generale de Le iene (1992) – è il proliferare di una chiacchiera ossessiva e apparentemente fine a se stessa, di dialoghi che non servono affatto a far progredire l’azione. Roba da mandare in tilt qualsiasi manuale di sceneggiatura.
Anche i personaggi di Pulp Fiction si perdono in conversazioni sui più disparati argomenti: il massaggio ai piedi, le piccole differenze tra Europa e USA nei fast food – l’ormai famoso Royale con formaggio –, l’utilizzo spropositato della mayonnaise nel Vecchio Continente, i pilot televisivi e tanto altro. Questi dialoghi allungano notevolmente il tempo delle scene, anzi ne dilatano il ritmo in modo esagerato e non sembrano trovare una giustificazione narrativa lampante. Eppure funzionano. Forse proprio perché riprendono, con gusto del nonsense e del paradosso, il cosiddetto cazzeggio che avviene nella vita reale per riempire i momenti di vuoto. Non è un caso che Mia Wallace/Uma Thurman dirà a un invaghito Vincent Vega/John Travolta: «Ooooh, questa non ha l’aria di essere la solita frasetta noiosa lanciata là per fare due chiacchiere. Sembra che tu abbia davvero qualcosa da dire». Potremmo chiamarla una battuta meta-ironica, nel senso che mette il dito nella piaga: in un film in cui il chiacchiericcio diventa scelta programmatica, una frase del genere riporta l’attenzione proprio su quello che in qualsiasi altro lungometraggio sarebbe una debolezza e qui, invece, è una forza.
Mia: «Non odi tutto questo?»
Vincent: «Odio cosa?»
Mia: «I silenzi che mettono a disagio. Perché sentiamo la necessità di chiacchierare di puttanate per sentirci più a nostro a agio?»
Vincent: «Non lo so. È un’ottima domanda.»
Mia: «È solo allora che sai di aver trovato qualcuno di davvero speciale. Quando puoi chiudere quella cazzo di bocca per un momento e condividere il silenzio in santa pace.»
Un dialogo simile, in un film in cui ogni personaggio non perde l’occasione per blaterare di qualunque cosa, è una staffilata all’essenza stessa dell’opera. Sottolinea una consapevolezza estrema dei propri mezzi espressivi e una grande disinvoltura e scaltrezza nel loro utilizzo. Il chiacchiericcio viene quindi elevato a dialogo post-moderno, termometro di una società sempre più svuotata di punti di riferimento. Tale scaltrezza verrà imitata in numerose pellicole, con più o meno successo e con maggiore o minore maestria. Si veda per esempio buona parte della filmografia di Guy Ritchie oppure tanti film noir degli ultimi decenni: da Cosa fare a Denver quando sei morto del 1995 a Sette psicopatici (2012), fino a Sette sconosciuti a El Royale (2018) giusto per citarne qualcuno (se ve lo starete chiedendo, sì, il numero sette è ricorrente in queste pellicole). Ma anche il remake violento e cinicamente ironico del classico del 1967 Senza un attimo di tregua, rifatto nel 1999 con Mel Gibson nel ruolo che fu di Lee Marvin con il titolo di La rivincita di Porter (Payback), risente di chiari echi tarantiniani.
L’influenza di Pulp Fiction nel cinema successivo non si riduce ovviamente solo al dialogo futile, brillante e ossessivo. La particolarità dell’opera spartiacque del ‘94 e di tutto il lavoro di Tarantino è l’aver preso materiale narrativo già esistente e averlo rielaborato in forma originale. In questo caso, si tratta di molto noir della Nouvelle Vague degli inizi, in particolare il Godard di Fino all’ultimo respiro (1960) e il Truffaut di Tirate sul pianista (1960), film in cui, con grandi libertà creative e stilistiche, spesso i personaggi erano balordi, come il Belmondo di À bout de souffle, che filosofeggiavano cinicamente sulla vita. A loro volta gli autori francesi si rifacevano al noir americano degli anni Quaranta. Da qui, il neo-noir degli anni Novanta di cui Pulp Fiction è l’emblema.
In queste sofisticate rielaborazioni, scatta il gioco della citazione con cui il fan più avvezzo riconosce precisi riferimenti a un universo pop nel quale può ritrovarsi e in virtù del quale si sente gratificato, in quanto appartenente allo stesso club, più o meno ristretto, di cui fa parte anche il regista italo-americano originario di Knoxville. Quasi inutile ricordare che già il nome della casa di produzione ideata all’epoca da Tarantino era A band apart, come il film di Godard del 1964, Bande à part, nel quale Anna Karina portava una pettinatura molto simile al personaggio di Mia Wallace e dove vi era una scena di ballo improvvisato molto simile, per stile, a quella del Jack Rabbit Slim’s. Anche la battuta Ho detto c…o che botta pronunciata da Mia nella toilette mentre tira la coca è un verso del gruppo Steppenwolf. Ancora, la scena di ballo di John Travolta, volutamente dilettantistica, è un esplicito richiamo meta-cinematografico al passato ballerino del divo di Grease e de La febbre del sabato sera. Tutto il locale Jack Rabbit Slim’s in cui si svolge la gara non è altro che la rievocazione dell’immaginario musicale e cinematografico degli anni Cinquanta.
Si potrebbe andare avanti per molto, ma l’aspetto interessante è che la venerazione di Tarantino nei confronti di certi elementi della cultura di massa, sia alta che bassa – distinzione puramente funzionale in questo caso –, il suo citazionismo consapevole nonché il gusto del dialogo assurdo e fine a se stesso sono rintracciabili ormai in ogni buon blockbuster hollywoodiano che si rispetti. Come altro si potrebbero definire le divagazioni pop di Guardiani della galassia 1 e 2 (2014 e 2017) in cui il protagonista Starlord idolatra la musica degli anni Settanta-Ottanta, vede in David Hasselhoff (protagonista del serial Supercar) un surrogato paterno e crede che Footloose (1984) con Kevin Bacon sia il film più bello del pianeta? Senza lo sdoganamento operato da Tarantino nei confronti di tanta cultura pop non avremmo avuto i Guardiani né l’ironia di un Robert Downey Junior, sia nei panni dello Sherlock Holmes di Ritchie sia in quelli di Tony/Stark Iron Man. Forse, più che di influenze tarantiniane nel genere pulp o noir, si dovrebbe parlare invece di un virus Tarantino inoculato e mandato a proliferare tra le pieghe dell’intero apparato cinematografico mondiale che lo ha ben incorporato e metabolizzato arrivando così a produrre opere nei generi più disparati, anche lontani dal cosiddetto pulp, che risentono comunque del tocco del regista di Pulp Fiction in qualche dialogo, in qualche citazione, in una strizzatina d’occhio a un certo pubblico di riferimento oppure semplicemente in una consapevolezza meta-narrativa nel modo di presentare la storia e i personaggi. Per non parlare dell’humor nero, dell’ironia e del gusto beffardo per l’eccesso.
Non ultimo per importanza, arriviamo alla frammentazione della narrazione, tipica di tanto cinema post-moderno. Il tempo del racconto si sposta in avanti e indietro, a seconda del segmento di storia che interessa narrare in quel momento. Così nel capolavoro tarantiniano vediamo il personaggio di Vincent Vega/Travolta morire e risorgere e lo accettiamo tranquillamente in virtù della circolarità del racconto. La ricostruzione cronologica degli eventi di Pulp Fiction è stata ampiamente sviscerata in tante pubblicazioni. Ciò che importa è che l’estrema disinvoltura con cui Tarantino gioca con i pezzi della narrazione, usandoli come in un complicato puzzle temporale, la ritroviamo per esempio in quella meraviglia di decostruzione narrativa che è stato Memento (2000) di Christopher Nolan, come pure in buona parte della filmografia del talentuoso autore de Il cavaliere oscuro (2008).
Anche le serie televisive si sono ampiamente appropriate dell’utilizzo libero e frammentato del tempo della narrazione. Per esempio la bellissima Westworld (2016) nella prima stagione attua un vero proprio inganno nei confronti dello spettatore dandogli delle false coordinate temporali riguardo un importante livello narrativo della trama solo per preparare un clamoroso colpo di scena. Racconti nei racconti, flashback che si attorcigliano su altri flashback, l’esplosione temporale della storia, tipica di tanto cinema cosiddetto post-moderno, la si deve molto a Tarantino in generale e al suo masterpiece in particolare.
A questo punto, enucleate le ragioni principali per cui Pulp Fiction sia stato un film così epocale, e individuate le influenze fondamentali che ha avuto su tanto cinema di questi anni, dire qualcosa di nuovo diventa impresa molto ardua. Una spiegazione decisamente originale la possiamo però trovare nel bellissimo volume Jung e il cinema a cura di Christopher Hauke e Ian Alister, edito nel 2001, ma tradotto in Italia solo nel 2018, nel quale si parla di un’interessante interpretazione alchemica del capolavoro tarantiniano.
Se ricordate bene, nel terzo episodio, i gangster Jules e Vincent vengono investiti da una pioggia di proiettili e ne escono illesi. L’evento miracoloso di cui sono protagonisti i due scagnozzi rappresenta un evento sincronistico generato dall’inconscio collettivo per permettere ai personaggi di redimersi e soprattutto di individuare se stessi. In termini junghiani, l’individuazione è quel processo teleologico verso cui tende la psiche e che porterebbe alla realizzazione di sé – ma anche del Sé – e del proprio potenziale inconscio. In altre parole, si tratta di quel processo psicologico che porta a divenire se stessi e che in molte persone, intrise di condizionamenti culturali collettivi, purtroppo non avviene. Jules sembra cogliere il profondo significato dell’evento miracoloso di cui è stato partecipe e ne approfitta per cambiare radicalmente vita. Infatti, nell’ultima scena rilegge in senso opposto i famosi versetti della Bibbia sul cammino dell’uomo timorato che declamava ogni qual volta stava per fare fuori qualcuno. Vincent invece rimane sordo ai richiami dell’inconscio e ne pagherà le conseguenze con la vita. La presenza della valigetta dalla luminescenza irreale può essere visto inoltre come un riferimento al Graal, simbolo del Sé e della riconquista dell’integralità della psiche. In quella valigetta forse è conservata l’essenza animica di Marcellus Wallace, il boss che in questo caso assurge al valore simbolico che il Re Pescatore, o re Artù, aveva nelle leggende del Graal. Il re ferito, sodomizzato nella famigerata scena con Bruce Willis, mandava i cavalieri a recuperare il Graal per risanare se stesso e il regno. Nello specifico, i cavalieri sono Jules e Vincent che recuperano la valigetta luminosa mentre Bruce Willis, il cavaliere armato letteralmente di spada – una katana–, salverà la vita del re/boss Wallace e verrà ricompensato. Per chi fosse interessato ad approfondire questo tipo di lettura simbolica, raccomando caldamente il volume di cui sopra.
Non rimane, allora, che chiudere questa analisi con le immortali parole del personaggio di Harvey Keitel: «Sono il signor Wolf, risolvo problemi».