È difficile spiegare le proteste avute luogo venerdì sera a Napoli, poi, nella giornata di sabato, anche in quel di Roma e Milano. Soprattutto, è difficile capirle se non si vive la città o, più in generale, se non si vivono più le regioni del Sud Italia. Le prime reazioni – alla vista dei tanti video che inondavano le bacheche dei social network con la violenza divampata nel capoluogo campano a tarda notte – sono comprensibili, tuttavia, superficiali.
Prontamente, i concittadini dei manifestanti hanno fatto a gara a chi esprimeva lo sdegno più feroce, a chi invocava la più ferma delle condanne, senza però, provare a interrogare i componenti di quella che – stando a ciò che la rete metteva in piazza – si mostrava come una folla fuori controllo. Napoli ha reagito all’annuncio del Presidente Vincenzo De Luca che anticipava un nuovo, prossimo lockdown, l’ennesima stretta alle attività cittadine e regionali, con una conseguente limitazione anche della mobilità individuale, circoscritta alla propria provincia di residenza.
Già nei giorni precedenti allo scorso 23 ottobre, nei pressi di Palazzo Santa Lucia si era radunato il popolo della scuola, insegnanti, mamme e alunni esasperati dalla decisione del Governatore di riprendere con la didattica a distanza a discapito delle lezioni in presenza. Una scelta, quella dello sceriffo, che certificava il fallimento dell’esecutivo nazionale, in particolar modo per quanto riguarda il Ministero dell’Istruzione guidato da Lucia Azzolina, visibilmente spaesata in un ruolo troppo più grande delle sue competenze.
A questi, in prossimità dell’orario previsto per il coprifuoco, le 23:00, si erano aggiunti i giovani della città, i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori, spaventati di fronte all’ipotesi di dover fronteggiare le spese della propria professione senza più l’ipotesi dei ricavi. Ciò che ne è conseguito, con le scene di rappresaglia violenta sfogata anche su giornalisti e forze dell’ordine, merita un’analisi più attenta, uno sguardo in profondità che in pochissimi si sono preoccupati di adoperare.
Chi si è dissociato dalle proteste, chi addirittura ha approfittato dell’occasione per rinnegare i propri natali, chi ha saputo invocare soltanto le infiltrazioni di forze fasciste o di componenti camorristiche, forse, con la Campania, con il Mezzogiorno e le sue ragioni ha perso contatto da un po’. In fondo, chi si è lanciato – alla vista delle prime immagini rimbalzate su Facebook e Twitter – nella sua personale analisi dei fatti, comodamente seduto in poltrona, altro non ha fatto che negare a quelle persone il proprio ascolto, la propria sensibilità, al pari della politica contro cui protestavano. Qualcuno ha persino pensato di dover offrire l’ennesimo stigma di un intero popolo.
Non si vuol certamente giustificare la violenza, men che mai verso i nostri colleghi di SkyTg24 e la stampa tutta, lodevole nel suo lavoro quotidiano di cronaca del periodo più buio degli ultimi settant’anni. Tuttavia, si vuol ricordare al lettore che non una sola battaglia nella storia dell’uomo è stata vinta chiedendo “per favore” al tiranno di turno, al detentore dei diritti che si intendevano rivendicare.
Le immagini delle proteste napoletane, infatti, non sono altro che pezzi di rabbia montati ad arte da una macchina mediatica che intende mostrare, dei partenopei, sempre e soltanto un’unica immagine, la stessa che provavano a contrapporre alla Lombardia che, in ginocchio ma pur sempre in ordine, affrontava i drammatici mesi di marzo e aprile scorsi. Il ragionamento da fare, in casi come questi, quando la realtà sembra palesarsi senza motivi d’appello, è esattamente l’opposto: per sottrazione.
Alla folla vanno rimossi gli ultras in crisi da curva, vanno eliminati – e non solo da quella – i fascisti che hanno riproposto le stesse diapositive nella Capitale all’indomani, puntuali come solo loro sanno essere a rovistare nella spazzatura, a muoversi con disinvoltura nel caos. Dal disordine, che siano fazioni politiche o organizzazioni malavitose, c’è chi riesce a trarne profitto, e farne lo stesso gioco assimilando alla loro azione quella di chi, con ordine, porgeva le proprie domande, altro non fa che andare a discapito non solo di questi ultimi, ma di tutti noi.
Riuscite, ora, a leggere in quella disperazione? Noi sì, perché ne viviamo l’angoscia. Perché se a marzo la Campania aveva accettato ogni misura restrittiva prima di chiunque altro – dimostrando un enorme e oltremodo ammirevole senso di responsabilità – oggi è lecito, persino sacrosanto che le categorie più esposte ai disagi socio-economici che la pandemia creerà si chiedano cosa lo Stato abbia prodotto in otto mesi di crisi e, dunque, in che modo la politica offrirà garanzie di fronte agli enormi sforzi a cui ancora sta per chiamarci.
È una paura che, a questo nostro sciagurato Paese, non è purtroppo nuova. È una paura che per capirla bisogna provarla, come a Taranto, dove ogni mattina circa 10mila persone – tra personale dipendente della fabbrica dell’ILVA e l’indotto – scelgono tra la probabilità di morire di cancro alla certezza di non avere più da mangiare. La situazione che rischiano di vivere i nostri territori è esattamente la stessa. Il COVID, di fronte alla possibilità di non riuscire più a garantire un domani ai propri figli, fa meno paura.
Per questo motivo sentiamo di offrire la nostra solidarietà a chi a Napoli, come nel resto d’Italia, si affida alle proteste chiedendo un’adeguata copertura da parte delle istituzioni, ovviamente in maniera civile, seppur dura. Per questo motivo sentiamo di stigmatizzare la comunicazione adoperata dal Presidente De Luca, i suoi toni da padrone, proprietario terriero come si è sempre sentito nel suo feudo salernitano, la sua scarsa efficacia di fronte alle criticità che la Campania sta affrontando dopo averne bagnato la rielezione con un plebiscito.
Le elezioni sono istituite per offrire rappresentanza, per firmare una delega a garanzia delle proprie istanze, le voci dei territori affidate a un megafono unitario e comune, non per legittimare potere. È un concetto diverso, sottile, persino pericoloso se non si è capaci di riconoscerlo. L’uomo forte è quello capace di lavorare per il noi, non chi minaccia facendo leva sulla forza dell’io.
È un concetto, quello che questo articolo intende esprimere, che fa il pari con la celebre frase di Bertolt Brecht: Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono. In un’era contraddistinta dall’egoismo, in una guerra tra poveri che non fa vincitori, le uniche armi a disposizione di un popolo volutamente tenuto al buio, costretto nel proprio senso di smarrimento, sono la solidarietà, l’ascolto, l’empatia. Le mascherine che portiamo ormai fisse sul volto non devono impedire al nostro senso critico di guardare agli occhi di chi le indossa.