Il tema del carcere è spesso al centro dell’opinione pubblica per fatti di cronaca, suicidi mancati e mala gestione degli istituti di pena. Negli ultimi giorni, però, la discussione sulla reclusione ha interessato tutto il territorio nazionale a seguito di due pronunce, l’una della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, l’altra della nostra Corte Costituzionale.
Per quanto riguarda la prima, si tratta della dichiarazione di inammissibilità del ricorso presentato dallo Stato italiano avverso la sentenza del 13 giugno 2019, che aveva a oggetto il caso Viola. Marcello Viola è un uomo condannato all’ergastolo ostativo per associazione mafiosa, omicidi e rapine, in carcere dagli inizi degli anni Novanta. Con questo tipo di pena perpetua, il nostro legislatore, all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, prevede l’impossibilità per il condannato di accedere a benefici previsti, invece, per gli ergastolani semplici, prime tra tutte le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale dopo ventisei anni, a meno che il reo non decida di collaborare con la giustizia. Tale rigidità si giustifica con il particolare allarme sociale che crimini di questo tipo suscitano e con la preoccupazione che certi detenuti, considerati socialmente pericolosi, tornino a delinquere: si tratta dei reati di cui all’art. 416 bis del codice penale – associazioni di tipo mafioso –, dei reati di eversione dell’ordinamento costituzionale, di terrorismo, sequestro, estorsione e di altre fattispecie caratterizzate dall’apprensione che generano nella comunità.
Al momento, in Italia, ci sono 1970 ergastolani, di cui 1255 condannati a tale particolare regime. E due di loro sono i protagonisti della vicenda che ha portato alla questione di legittimità costituzionale innanzi alla Consulta, pronunciatasi pochi giorni fa, precisamente il 23 ottobre. La prima domanda che possiamo farci, dunque, riguarda l’utilità di tali strumenti all’interno del nostro ordinamento: quanto l’ergastolo può essere utile alla rieducazione? Quanto lo stesso carcere, a oggi, riabilita il soggetto offrendogli una seconda possibilità?
Se la maggior parte dei detenuti, una volta fuori, torna a delinquere, reinserendosi in quel circuito criminale che l’aveva condotta all’illegalità, verrebbe da pensare che è la stessa istituzione penitenziaria ad aver fallito nel suo scopo di rieducazione. Ancora ridotte appaiono le possibilità di riabilitazione nel momento in cui sulla propria scheda di riferimento appare la dicitura fine pena mai.
La prospettiva è nulla, dunque l’impegno sarà ancora minore, a meno che non ci si aggrappi con tutte le forze alla speranza di un riesame della propria posizione. Ed è qui che l’ergastolo ostativo mostra i suoi evidenti limiti: non è solo la condanna a essere definitiva ma è l’impossibilità di emanciparsi dal crimine e compiere il percorso riabilitativo cui la pena è finalizzata. Alle stesse conclusioni sembra giungere la Corte di Strasburgo quando afferma che l’ergastolo ostativo è in contrasto con l’art. 3 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, che vieta in modo assoluto trattamenti inumani e degradanti, così come l’art. 27 della nostra Costituzione.
Anche a voler ritenere legittimi i fini dell’istituto e quindi la necessità di tutelare la comunità nei confronti di chi è considerato socialmente pericoloso, ciò che le due Corti contestano è il regime di automaticità che discende dalla mancata collaborazione con la giustizia, evidenziando che essa non è chiaro indice di una mancata rieducazione o di un mancato percorso riabilitativo ma può dipendere da numerosi fattori, tra i quali la paura di sottoporre a ritorsioni la propria famiglia. Infatti, l’unico caso in cui è previsto derogare alla regola è quello in cui si dimostri che si è nella totale impossibilità di collaborare, ad esempio perché non si hanno informazioni, il tutto però accertato attraverso parametri molto stringenti. Così come è evidente che anche la collaborazione stessa non sia indice di un chiaro ravvedimento ma possa essere una mera scelta opportunistica.
Si perde di vista, in questo modo, il fine ultimo della pena previsto dalla nostra Costituzione, ossia la rieducazione: essa, infatti, viene totalmente annullata se non si permette un rientro in società neppure di fronte a un concreto processo di riabilitazione. Ciò che appare necessario allora è restituire al giudice la possibilità di valutare il caso singolo, il percorso rieducativo compiuto dal detenuto e in particolare l’eventuale sussistenza della pericolosità sociale per la quale l’ergastolo ostativo è stato comminato.
Dopo la pronuncia in questione si sono sollevate vere e proprie bufere nell’opinione pubblica e da parte degli stessi esponenti politici, che l’hanno ritenuta il lascia passare per mafiosi e terroristi. In realtà, la Corte non ha sancito in nessun modo che Viola vada liberato o che vadano liberati altri detenuti che sono nelle sue stesse condizioni. Ha semplicemente affermato la necessità di una riforma, preferibilmente legislativa, con la quale si recuperi il fine della pena e si garantisca la possibilità di riesame della stessa. E il primo passo è stato compiuto dalla Corte Costituzionale nell’affermare che l’ostatività è illegittima nella parte in cui non permette al detenuto di ottenere permessi premio, neppure se sia chiara la sua impossibilità di ripristinare il collegamento con l’associazione criminale di cui faceva parte.
Ciò che non bisogna mai dimenticare è che chi si trova in carcere è innanzitutto un essere umano, per quanto possa essere efferato il crimine che ha compiuto e qualsiasi siano le ragioni che l’hanno spinto a compierlo: mai la pena deve diventare punizione e mai lo Stato deve condurre l’individuo nel meccanismo dell’occhio per occhio, dente per dente. La pena non deve essere in nessun modo finalizzata alla vendetta o alla mera soddisfazione della comunità, perché chi delinque è innanzitutto un membro della società e la società stessa fallisce se qualcuno sente la necessità di oltrepassare i limiti della legalità.
Negare a un individuo le tutele che devono essergli garantite in quanto uomo significa abbandonare lo Stato di diritto e rendersi colpevoli di qualcosa che è molto più grave di liberare un malavitoso: abbandonare chi ha sbagliato alla propria marginalità, indifferenti al suo essere uomo. Non è la prima volta che richieste simili arrivano dalle carceri italiane, dove sempre più spesso si registrano casi di diritti fondamentali non rispettati, primo tra tutti quello alla salute, ed è preoccupante che per smuovere le coscienze e giungere a queste pronunce abbiano dovuto susseguirsi anni e anni di soprusi e vite stroncate dietro le sbarre.
Dunque, ci troviamo sicuramente di fronte a sentenze storiche che possono e devono aprire la strada a una riforma reale del sistema penitenziario affinché esso si spogli di qualsiasi eccesso proprio delle mere punizioni e riacquisti la sua vera finalità, ossia la rieducazione rivolta al singolo in quanto uomo. L’ergastolo ostativo si presenta invece come un meccanismo totalmente spersonalizzato, che non tiene conto del soggetto, della sua situazione personale e del percorso che ha compiuto. Una misura chiaramente in contrasto con il nostro Stato di diritto. Ciò che prima di tutto è necessario, però, è un cambiamento globale della considerazione che la maggior parte della comunità ha delle persone recluse: uomini e donne che, in quanto tali, vanno tutelati e rispettati. Di certo, non emarginati.