Nonostante tutte le volte in cui il governo in questi mesi ha fatto cenno alla trasparenza, il Decreto Semplificazione sembra a tratti percorrere un’altra strada. Avevamo già sottolineato l’importanza di gestire le ingenti risorse che arriveranno non solo con cognizione di causa ma anche in maniera specchiata perché solo in questo modo può essere soddisfatto il fine pubblico. Il decreto in questione, invece, pur di premere i piedi sull’acceleratore, prevede, tra le varie, che fino al 31 luglio 2021 la soglia per gli affidamenti diretti salga a 150mila euro, che per importi superiori e sino alla soglia comunitaria debbano essere attivate le procedure negoziate con 5 inviti per importi fino a 350mila euro e che gli appalti collegati al superamento dell’emergenza vengano affidati con procedura negoziata anche soprasoglia. Risultano, dunque, evidenti le deroghe al codice degli appalti, che rischiano di agevolare chi ha intenzioni criminose o, anche più semplicemente, l’affidamento di lavori pubblici ai soliti amici degli amici, date le procedure poco rigide.
Per questo ne parliamo con il professore Alberto Vannucci, docente di Scienza Politica presso l’Università di Pisa e titolare del Master in Analisi e Prevenzione della Corruzione, nonché esperto a livello nazionale ed europeo di anticorruzione.
Ci spiega perché secondo Lei il Decreto Libera Italia rischia di diventare un liberi tutti?
«Perché cancella ogni forma di concorrenza nell’assegnazione almeno per un anno – e ci si può aspettare una proroga – in tutti gli appalti pubblici che riguardano il 98% delle gare. Parliamo di un giro di denaro di 200 miliardi di euro che prevede in alcuni casi persino la trattazione privata: questo è un meccanismo criminogeno che non solo mette il funzionario pubblico nelle condizioni di essere esposto a condizionamenti da parte di chi è portatore di interessi privati o addirittura interessi criminali ma anche, qualora il funzionario sia malintenzionato, di sfruttare la sua capacità decisionale sull’affidatario dell’appalto in base a criteri ispirati non all’interesse pubblico bensì agli appetiti personali.
In questo modo non ci sarà più concorrenza – che ricordiamo essere una forma di controllo – e, peggio ancora, ciò avverrà su una pubblica amministrazione già danneggiata nei confronti della quale non c’è stata una riduzione neppure dei centri di spesa. Questo è uno scenario molto preoccupante perché il rischio è di andare a sbattere e di incorrere nel fallimento dell’accelerazione dei procedimenti o persino di innescare fenomeni corruttivi e mafiosi».
Quanto e in che modo la valenza criminogena di questo decreto rischia di favorire non solo gli amici degli amici ma anche le infiltrazioni mafiose?
«La valenza potenzialmente criminogena è dimostrata anche dalla decisione di commissariare quasi 150 opere infrastrutturali: questo sistema rappresenta la proiezione allargata del sistema della cricca della Protezione Civile, ossia un sistema che ha oggettivamente fallito, e bisogna anche capire in base a cosa vengono scelti i commissari.
Quanto alla criminalità organizzata, è evidente che il sistema degli appalti in questo modo venga liberalizzato e sappiamo che da sempre le organizzazioni criminali cercano soggetti che sovraintendono e garantiscono per la spartizione delle risorse pubbliche. Inoltre possiamo aspettarci che grazie a questo decreto, visto come fattore generatore di corruzione, le mafie tramite gli appalti riciclino e investano tramite imprese contigue o dirette espressioni del loro potere».
Il Presidente dell’Associazione magistrati della Corte dei Conti ha affermato che questa norma attacca solamente i sintomi: è come rompere un termometro piuttosto che curare la febbre. Pensa che si tratti di ingenuità da parte di chi ha voluto la legge o che ci fosse una chiara intenzione di deregolarizzare?
«Ho l’impressione che dallo Sblocca Cantieri in poi ci sia sempre stato un tentativo, in buona o in cattiva fede, di risolvere il nodo degli appalti liberalizzando il sistema, cioè lasciando al singolo funzionario la possibilità di operare con ampio arbitrio. Si tratta di un approccio irrisorio perché gli episodi corruttivi nel 70-80% dei casi si legano non al momento della gara ma al momento precedente e il metodo prevalente usato in questo Paese è quello giuridico-formalistico per cui c’è una continua successione di norme che vengono cancellate con un colpo di bacchetta, come in questo caso, così come viene anche cancellato il ruolo dell’ANAC. Il problema è che questo è un sistema pericoloso che ha trovato la propria legittimazione nella pandemia, dopo che aveva già cercato di darsi forma in questi anni».
Considera anche Lei quello del Ponte di Genova come un modello da imitare?
«No, perché è il modello che ha ispirato il Decreto Semplificazione: viene affidato tutto a un commissario che decide in maniera totalmente autonoma a chi affidare i lavori pubblici e stabilisce anche le spese. Quello era un modello adattato in uno stato di emergenza ma temo che farlo diventare una regola per tante altre opere sia nocivo perché deve rimanere un unicum, così come è stato un unicum la tragedia».
Il Presidente del Consiglio aveva affermato che tutta la crisi pandemica sarebbe stata affrontata secondo il criterio della trasparenza, comunicativa, decisionale e così via. Perché, poi, quando si arriva a legiferare sulla trasparenza concreta, si va verso un’altra direzione?
«Ovviamente è un problema di matrice culturale della nostra amministrazione e della stragrande maggioranza dei funzionari pubblici che ha una formazione giuridica e, quando si parla di trasparenza, spesso non capisce cosa sia. L’effetto è che trasparenza a quel punto vuol dire mettere a disposizione della cittadinanza dei dati che sono difficilmente comprensibili e leggibili, senza fare altro. In realtà la trasparenza vera è quella secondo cui tutto ciò che accade nella pubblica amministrazione possa essere osservato, dunque tutto quello che concerne un appalto deve essere reso conoscibile ai cittadini».
Il governo predica discontinuità, eppure su questo tema sembra non sia cambiato molto rispetto alla gestione di altre emergenze. Possiamo parlare di un modus operandi consolidato o ci sono delle differenze tra il modo in cui si sta agendo adesso e, ad esempio, il modello Bertolaso?
«Il modello di commissariamento della realizzazione delle grandi opere è proprio il modello Bertolaso, ossia quello della Protezione Civile. È sempre la questione del termometro rotto cui si faceva cenno prima: non ci sono nemmeno i saperi, le competenze e le conoscenze necessarie e questo modello stabilisce che sostanzialmente decidono tutto le stazioni appaltanti. Le patologie di fondo del sistema rimarranno lo stesso e serve uno sguardo più ampio ma in Italia le emergenze hanno sempre costituito un’occasione per l’arricchimento di pochi a danno della collettività: siamo in perfetta continuità non solo con il modello Bertolaso ma anche con scelte scellerate prese nei decenni precedenti che hanno fortemente pesato sulla spesa pubblica».
Se si parla di ripartenza, bisogna ammettere che sarebbe sacrosanto ricominciare da paradigmi più salutari e trasparenti. Per questo, tra le tante task force create, forse era il caso di istituirne una anche sull’anticorruzione?
«No, per carità, ne sono già state fatte troppe, a dimostrazione di un approccio che tende a deresponsabilizzarsi. Esiste un ente che ha già una funzione importante su questa questione, cioè l’ANAC, ma bisognerebbe dargli un ruolo, mentre ora è stato completamente escluso. Quindi valorizziamo quello che già c’è».
Esiste una via di mezzo tra l’esigenza di accelerare e quella di garantire correttezza e legalità?
«In alcuni momenti è necessario accelerare ma è altrettanto necessario rafforzare i sistemi di controllo. Invece in questa fase i controlli sono sempre formali, cartacei e procedurali, dunque volti a considerare che tutte le carte siano in regola, quando in realtà chi paga tangenti è sempre attento che l’aspetto formale sia corretto ma bisogna verificare che i meccanismi di controllo siano efficaci anche sui prezzi e quant’altro».
A settembre Lei ebbe a dire che l’allora neonato governo sarebbe durato solo se il PD si fosse liberato dalle incrostazioni di potere. A oggi la situazione Le sembra invariata?
«Il PD mi sembra un’entità composta da tanti cerchi che si contrappongono tra di loro con il Segretario Zingaretti che cerca di fare da guida tra molte difficoltà. Cerchi che si trovano affianco il M5S, dove ognuno ha una propria visione, quindi è difficilissimo individuare una matrice unitaria in questo governo: ne sa qualcosa Conte che cerca di trovare una sintesi tra posizioni nettamente diverse.
Di sicuro possiamo dire che, anche in questo decreto, si vede una forte impronta affaristica intenzionata ad avere un ritorno, che può essere anche legale. Vi è anche qualcosa di buono e condivisibile, ma c’è l’impressione che la componente hard, cioè quella relativa agli appalti pubblici, vada molto a lisciare il pelo a interlocutori imprenditoriali che possano essere grati ai decisori politici o comunque ai funzionari amministrativi».