Pierluigi Lopalco, epidemiologo e professore ordinario presso il Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa, è il coordinatore della task force pugliese per l’emergenza coronavirus. Le sue conoscenze e competenze fanno di lui una voce autorevole alla quale numerosi talk-show si sono rivolti in questa fase, anche per la sua fermezza nel sostenere un modello italiano – che si sta formando – da attuare in questo momento anziché rifarsi a modelli esteri. Abbiamo avuto l’opportunità di porgli alcune domande.
Professore, a più di un mese dall’inizio della pandemia, si sta formando quel modello italiano che Lei auspicava e che predilige rispetto all’adozione di modelli stranieri?
«Per parlare di modello italiano possiamo riferirci a quel compromesso fra rigidità di misure per la tutela della salute (lockdown) e tutela dei diritti individuali. Il nostro modello di chiusura è stato senz’altro rigido e ha permesso di bloccare l’epidemia nonostante alcune regioni del Nord siano state colte di sorpresa. Altre nazioni europee hanno tardato ad attivare le stesse misure o, come alcuni paesi del Nord Europa, non le hanno mai messe in atto, con conseguenze che secondo il mio parere hanno portato a un alto numero di casi evitabili».
Quanto hanno inciso i tagli che la sanità ha subito negli ultimi anni sulle modalità di reazione al coronavirus?
«Una sanità più forte forse avrebbe potuto reagire con maggiore determinatezza. La mancanza di una forte sanità pubblica sul territorio senza dubbio si è fatta sentire nella risposta in particolar modo in Lombardia. Ma tutto sommato la risposta è stata efficiente e la corsa del virus è stata fermata in tempo su gran parte del territorio nazionale. Certo, se avessimo avuto a disposizione un numero maggiore di operatori sanitari in servizio, non avremmo dovuto fare i salti mortali per organizzare la risposta alla pandemia».
Ritiene che la medicina del territorio abbia gli strumenti sufficienti per imparare a gestire un’epidemia?
«Manca un numero sufficiente di uomini e manca la cultura della risposta a una epidemia. È una cultura che si sviluppa nel tempo. In Italia, a parte poche realtà con servizi di igiene pubblica che hanno avuto esperienze di controllo di epidemie, non esiste questa cultura».
Quest’emergenza ha messo ancora di più in risalto la disparità sanitaria tra Nord e Sud?
«Non mi sembra che il Sud se la sia cavata male, anzi. Forse una maggiore esperienza maturata nel passato con le malattie infettive ha permesso di mettere in campo strategie più efficaci».
Si può affermare che ci sono delle responsabilità dirette in merito alla diffusione del virus attribuibili all’ospedale di Codogno?
«L’ospedale di Codogno è stato preso alla sprovvista. Se dobbiamo cercare responsabilità forse bisognerebbe cercare nelle strutture che ormai erano state allertate del rischio COVID-19 e non hanno preso le misure necessarie. Da questi errori bisogna imparare».
Lei ha messo in rilievo la scarsità della cultura del controllo infezioni, del controllo dell’influenza e dei livelli di vaccinazione come elementi facilitatori dell’ingresso del virus negli ospedali. Da dove provengono tali deficit?
«Sono deficit culturali. La cultura del controllo infezioni nei nostri ospedali è molto scarsa. La “semplice” igiene delle mani non si pratica abitualmente. Non parliamo dell’adesione alla vaccinazione antinfluenzale che fra gli operatori sanitari è molto deludente».
Percepisce uno scarico di responsabilità della politica sui tecnici e sugli esperti?
«Sicuramente scienziati e tecnocrati sono sempre utilizzati dalla politica come capri espiatori. Ma, in questo caso specifico, il mondo della scienza è stato ascoltato, almeno quando in coro ha lanciato l’allarme coronavirus».
Possiamo sperare che questa situazione rimuova una volta per tutte gli istinti autolesionistici di coloro che screditano l’utilità dei vaccini?
«Faccio la mia scommessa: quando arriverà il vaccino il ricordo della tragedia COVID-19 per molti sarà già svanito e riprenderanno le solite storie sull’inutilità del vaccino, Big Pharma, teorie del complotto e così via. La sanità pubblica dovrà fare il suo lavoro e mettere in condizione chi si deve vaccinare di farlo».