Alla fine si è arreso e si è consegnato alla Polizia Federale Luiz Inácio Lula da Silva, detto Lula, trentacinquesimo Presidente del Brasile dal 2003 al gennaio 2011, con l’accusa di corruzione, condanna che secondo molti osservatori internazionali è stata comminata unicamente su base indiziaria. Molti, infatti, i dubbi sulla regolarità del processo senza alcuna prova verificata.
L’ex Presidente, sicuro di essere stato vittima di un complotto, l’anno successivo alla sua elezione, attivò, tra l’altro, il programma Bolsa Familia, uno degli strumenti che gli servirono a ridurre il divario enorme tra ricchi e poveri consentendo a circa undici milioni di famiglie di ricevere aiuti economici e garantendo negli anni a venire una stabilità dell’economia apprezzata dai mercati internazionali.
La detenzione, però, quasi certamente, non gli permetterà di presentarsi alle elezioni di ottobre nonostante i sondaggi, anche all’indomani dell’arresto, gli dessero percentuali considerevoli, dettaglio che ha destato non pochi sospetti su tutta la vicenda.
Sull’argomento ho rivolto alcune domande al Prof. Domenico De Masi, profondo conoscitore della realtà sociale e politica del Brasile, che ringrazio particolarmente per la sua disponibilità.
Professor De Masi, Lei conosce bene la realtà brasiliana. Cosa sta succedendo a distanza di pochi mesi dalle elezioni presidenziali?
«Sta succedendo in poco tempo e a distanza di quarant’anni ciò che è avvenuto nel resto dell’Occidente con largo anticipo e in tempi più diluiti. Alla lotta di classe dei poveri contro i ricchi si è sostituita la lotta di classe dei ricchi contro i poveri. Già il secondo mandato di Fernando Henrique Cardoso aveva contenuto elementi socialdemocratici ritenuti eccessivi dalla destra brasiliana, ma i due governi Lula misero in atto mutamenti sociali (come l’ascesa di classe di quaranta milioni di sottoproletari e proletari) che i conservatori non potevano tollerare anche perché, ai loro occhi, preludevano ulteriori avanzate socio-economiche del proletariato e della piccola borghesia. Così è iniziata la strategia soprattutto mediatica per discreditare il PT e i suoi leader che, da parte loro, hanno compiuto errori gravi, incompatibili con un onesto governo di sinistra. Oggi sappiamo che la tempesta perfetta ha sconquassato sia la destra che la sinistra. Le accuse di corruzione, riciclaggio e finanziamento illecito coinvolgono novantasette politici: otto ministri attualmente in carica, ventiquattro senatori, trentasette deputati, dodici governatori e quattro ex Presidenti della Repubblica. Anche dopo l’impeachment di Dilma Rousseff, resta coinvolto l’intero vertice governativo, compreso il Presidente della Repubblica, e l’intero arco dei partiti dal PMDB al PSDB e al PT. Con l’arresto di Lula, i conservatori brasiliani possono dire con lo stesso orgoglio ciò che Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo, dichiarò al New York Times il 26 novembre 2006: Certo che c’è guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo.»
L’arresto dell’ex Presidente Lula per corruzione, tra l’altro con prove inesistenti, è da mettere in relazione al clima elettorale?
«È da ricondurre alla grande ondata restauratrice per cui negli Usa governa Trump e in Europa le destre sono in rimonta. Questa ondata non poteva consentire che Lula tornasse al potere perché avrebbe offerto un pericoloso esempio alle sinistre di tutto l’Occidente. Doveva essere annientato politicamente.»
Quali sono i poteri forti che a tutti i costi vogliono impedire un ritorno del difensore dei diritti dei più deboli, dei lavoratori e degli strati più poveri del popolo brasiliano?
«Come diceva Brizola, la differenza tra ricchi e poveri è che i ricchi hanno le loro lobby mentre i poveri non hanno lobby. Gli interessi dei ricchi sono sempre sostenuti a livello sovra-nazionale mentre gli interessi dei poveri hanno sempre un raggio locale. Dunque, ciò che è accaduto in Brasile va ricondotto a forze sovra-nazionali che hanno nel Paese sudamericano un rapporto forte con alcuni imprenditori, con i mass media e con alcuni magistrati. Come ha ricordato il New York Times, il 4 aprile, alla vigilia della decisione del tribunale supremo federale, il generale Eduardo Villas Bôas, capo delle forze armate brasiliane, ha intimidito il tribunale emanando un tweet in cui ha detto che i militari condividono insieme a tutti i cittadini perbene, il ripudio dell’impunità e il rispetto della Costituzione, la pace sociale e la democrazia. Bolsonaro, candidato dell’estrema destra, è stato il primo a sostenere pubblicamente il messaggio di Villas Bôas. A sua volta il generale Luiz Gonzaga Schroeder ha dichiarato che se Lula fosse rieletto Presidente, le forze armate avrebbero il dovere di restaurare l’ordine. Dunque, anche i militari fanno parte del blocco conservatore che ha ordito e realizzato la strategia contro la sinistra, la quale, purtroppo, ha danneggiato se stessa cedendo alla tentazione di preferire la corruzione alla limpidezza.»
Anche la Chiesa brasiliana è scesa in campo in difesa di Lula. Potrà servire per una possibile inversione di tendenza proprio in vista della competizione elettorale?
«Non esiste una Chiesa brasiliana ma la compresenza di più chiese, tra cui alcune decisamente conservatrici.»
Quali le Sue previsioni sul futuro del Paese e della vicenda dell’ex Presidente Lula?
«Non lo so. Temo che, se ci saranno forti moti di piazza in favore di Lula, questi rischi di peggio.»