Un vento freddo e austero sta soffiando sulla scuola pubblica italiana. Prima la parolina merito che si insinua tra le nomenclature dei ministeri, poi le ultime, incredibili dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara. Umiliazione e stigmatizzazione sarebbero fattori di crescita personale, una frase (prontamente ritirata) che riporta la mente alle bacchettate sulle mani, ai cappellini da asino o alle ricreazioni passate in ginocchio sui ceci. Ma cosa c’è dietro questa nuova spinta autoritaria nel settore scolastico?
Ne abbiamo parlato con Dario Ianes, docente di Pedagogia e Didattica Speciale all’Università di Bolzano (Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria), co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento e direttore della rivista DIDA. Il Prof. Ianes ha fatto dell’inclusione la sua missione all’interno del sistema scolastico, scrivendo testi fondamentali per chiunque si formi nel delicato campo della pedagogia.
Benvenuto, Prof. Ianes. Partiamo dall’occhio del ciclone: umiliazione e stigmatizzazione. Cosa ne pensa delle parole sfuggite al Ministro Valditara?
«Beh, per me quelle non sono parole sfuggite perché rispondono molto bene a un principio autoritario. Credo che alla base di queste dichiarazioni ci sia proprio quella mentalità autoritaria che aveva studiato il filosofo e sociologo tedesco Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno (The Authoritarian Personality) tra gli anni Quaranta e Cinquanta. È la mentalità che di fronte alla disobbedienza, alla devianza o a una differenza utilizza il potere e la repressione. Questo è un principio patriarcale, tipicamente di destra: ovvio che poi vengano fuori concetti come il merito e, andando, avanti l’umiliazione, la stigmatizzazione, i lavori socialmente utili. Però, il punto non è solo questo. Per me, queste “punture di spillo” nascondono in realtà una visione molto classista della scuola, rispetto alla quale non si investe per superare quelle disuguaglianze, quei problemi che oggettivamente ci sono».
Ecco, a difesa di questa mentalità autoritaria vengono sempre poste delle forti criticità da “sanare”, che in effetti esistono realmente.
«Certo, gli ideologi di questo tipo di approccio – come la Mastrocola, Ricolfi, Galli della Loggia – denunciano che la scuola fa grandemente fatica a essere il settore sociale nel quale le diseguaglianze vengono appianate, ed è giusto. Il problema è la ricetta proposta. Si va nella direzione della destra, che non è la direzione dell’aumentare le risorse per la scuola pubblica, del sostenere gli insegnanti o del dare loro strumenti. I docenti, soprattutto quelli delle secondarie di secondo grado, in quelle scuole più “di frontiera”, si trovano da soli, poco formati, poco sostenuti: non vengono supportati in un compito che è enormemente difficile. È durissimo lavorare con una classe di adolescenti demotivati perché la didattica non va molto incontro ai loro interessi, alla loro significatività».
Perciò quegli insegnanti – isolati e senza sostegno – sentono che la loro figura viene svilita e chiedono maggiore autorità.
«È un’illusione quella di dire restituiamo autorità agli insegnanti: dobbiamo restituire partecipazione a questi studenti, devono sentire che vanno a scuola per qualcosa che è forte, che è importante per la loro vita, per il loro futuro. Ed è qui che deve aprirsi il fronte del miglioramento della scuola, non tanto nel dare nuovi strumenti repressivi. Se gli strumenti repressivi vengono utilizzati in una situazione che è un casino, non fanno altro che acuire lo scontro e rendere ancora più difficile il lavoro dell’insegnante. Si va a un’escalation, se lo immagini: tu mi imponi i lavori socialmente utili e allora io studente ti rigo la macchina. Sono meccanismi di scontro di cui ha parlato ogni psicologo e ogni pedagogista, ma la vecchia cultura dell’autoritarismo non lo comprende.
In realtà, non credo che queste posizioni autoritarie siano solo ignoranza o arroganza ideologica. Secondo me c’è anche un disegno: “buttare fuori” una serie di dichiarazioni problematiche perché non si può “buttare fuori” un piano serio per l’istruzione (al di là di pochi, pochi, spiccioli di aumento di stipendio, peraltro di contratti vecchi). Non c’è un vero progetto di forte investimento sulla scuola. È così che la si sostiene davvero: con la formazione di docenti di supporto, con le competenze psicologiche che entrano nella scuola sistematicamente a dare una mano agli insegnanti. Ma siccome questi corsi costano soldi, non sono tra le priorità, allora si dà fuoco al dibattito con scemate di questo tipo».
Quindi, secondo Lei, queste dichiarazioni sono una manovra consapevole.
«Secondo me sì, perché mi rifiuto di pensare che una persona di normale intelligenza prenda questo incarico e subito dichiari delle cose così assurde. Io mi aspetterei invece delle manovre di rinforzo del sistema scolastico – sappiamo che fa acqua, la diagnosi è condivisa – attraverso interventi di accrescimento, non di tipo repressivo. Di fronte all’incapacità o alla non volontà di avere un approccio di incremento del settore (perché siamo tra gli ultimi in Europa a investire nell’istruzione) allora cominciare a produrre delle affermazioni simili può essere utile per entrare in una specie di “cortina fumogena” che distragga dai temi lasciati aperti».
Ad esempio, cosa sta venendo lasciato fuori dal dibattito?
«Le faccio un esempio banale proprio sulla secondaria: cos’è che devo studiare io per diventare professore alle medie? Forza, ditemi quello che devo fare. Nessun governo è stato in grado di fare una cosa seria diciamo dal tempo delle SSIS, poi il TFA, poi il PAS, poi il FIT. Allora, mi aspetto che un governo di destra stabilisca che, ad esempio, chi deve ottenere questo titolo debba fare due anni di forte formazione, perché è così che si ridà autorevolezza ai docenti. Ma queste proposte nascono solo se c’è alla base una visione di scuola che effettivamente faccia crescere cittadini e cittadine democratici. Tutto questo, evidentemente, non è tra le priorità. È da poco uscito un articolo di Nadia Urbinati sul Domani, nel quale viene introdotto un concetto interessante: l’idea che l’impoverimento culturale potrebbe essere sottotraccia un obiettivo della destra perché per ottenerlo basta non fare nulla. Non agire, non investire, lasciare che le cose degenerino progressivamente: così si crea una politica di impoverimento».
E l’impoverimento avviene poi proprio nei settori più complessi da gestire.
«Lei confronti la situazione tra il settore dell’infanzia e della primaria e quello della secondaria di primo e secondo grado: c’è una maggiore competenza pedagogica, una maggiore attenzione nei confronti dei bambini e delle bambine, perché per accedere alla primaria bisogna compiere un percorso universitario di cinque anni. Bisogna dare gli strumenti giusti anche ai professori. Il lavoro del docente di fronte a preadolescenti e adolescenti è forse il più complesso perché proprio l’età genera una serie di difficoltà personali e psicologiche in più. In quella fascia di età ci sarebbe un bisogno raddoppiato e invece c’è ancora questo buco di formazione frutto della vecchia idea che, dopo aver studiato filosofia o matematica per cinque anni, sei già pronto per diventare un ottimo docente».
E sembra proprio che sia tra i docenti della secondaria di primo e secondo grado che questa concezione autoritaria della scuola stia prendendo piede. Sono tanti i commenti che chiedono a gran voce autorità e rigore.
«È preoccupante il fatto che di fronte alle difficoltà la suggestione dell’arma dell’autoritarismo e della repressione diventi affascinante. So rendere la didattica più accattivante, più motivante, più laboratoriale e più sociale e più significativa per la vita? No, non so farlo, o comunque farlo costa molto in termini di lavoro (perché effettivamente è complesso). Allora datemi un’arma che mi costi molto meno: la punizione. Sono soluzioni ridicole, ma che possono incontrare il favore di chi cerca una scorciatoia, peraltro fallimentare. È un’illusione di potere, come il voto. I docenti non hanno vera autorevolezza se, una volta privati del potere di mettere voti, non hanno altri strumenti da usare. Allora, se il buon Ministro davvero vuole far crescere la scuola da un punto di vista metodologico, perché non incentiva tutte quelle sperimentazioni che provano a farle le cose in modo un po’ diverso? Sono rari, ma ci sono dei licei che provano a fare a meno dei voti e utilizzano metodi di valutazione diversi. Perché non dare spazio a queste iniziative, metterle in condivisione? Sono piccole isole di innovazione e prima che si spengano bisogna sostenerle».
Ma molti docenti sono spaventati da queste sperimentazioni, temono di perdere la loro autorità. Convergono verso la rigidità e non verso l’innovazione e il “lassismo”.
Ci sono sempre i nostalgici della rigidità, però sarebbe da applicare anche a loro: è bello essere rigidi con la schiena degli altri. Anche questa storia del lassismo, cosa nasconde: la scuola italiana negli ultimi anni è diventata sempre più eterogenea, sempre più complessa. È facile dire ai miei tempi: ai tuoi tempi non c’erano alunni con disabilità, non c’erano alunni stranieri e quei pochi che c’erano venivano segati fuori. Non erano un problema perché la scuola era selettiva. Io ho fatto il classico, l’ho finito nel ’73, e mi ricordo benissimo che la nostra classe – che era di “quelli bravi” – tra il quarto e il quinto ginnasio è stata ridotta a metà. Era una scuola selettiva, sì, ma selettiva in base a cosa? Le racconto un aneddoto, l’ho saputo da poco: mia mamma andò a un colloquio, in quarto ginnasio, e l’insegnante le disse guardi, questa non è una scuola adatta a Suo figlio, non ce la può fare. Mi dipinse in tinte molto fosche e mia mamma non me lo disse mai: me l’ha rivelato solo ora, che ha 92 anni. Mi ha protetto da quel commento, che mi avrebbe fatto soltanto male. La logica allora era il separare le persone adatte ai lavori manuali – tra cui, apparentemente, io – e quelli adatti a diventare la nuova classe dirigente. La verità è che quelle caratteristiche di “merito” non erano davvero legate ai talenti dei ragazzi, ma ad altre variabili di tipo sociale.
Allora cos’è davvero questo lassismo? Semplicemente il volersi occupare di tutti, cercare di tirare fuori da ognuno del potenziale. È questa la scuola inclusiva. Chiaro che per fare questo c’è un’enorme complessità, e questa complessità va sostenuta. La legge che ha abolito le classi differenziate prevedeva non solo gli insegnanti specializzati – e di questi ce ne sono tanti, in Italia sono 200mila, anche se precari e senza titolo – ma anche il servizio sociopsicopedagogico a supporto della scuola, una struttura organica che però non si è mai fatta. E questa è un’altra gamba che manca al sistema».
Speriamo che almeno questa bufera mediatica riesca a riportare l’attenzione su queste enormi mancanze del sistema scolastico.
«Spero anch’io che queste esternazioni un po’ bizzarre facciano riflettere e creino un po’ di anticorpi democratici. Occuparsi dei migliori è facile, occuparsi di tutti richiede sostegno e capacità. È questa la nostra sfida».