Una volta, quando frequentavo le medie, mi iscrissi a un incontro che la mia scuola aveva organizzato con una casa editrice che doveva servire a presentarci il mestiere dell’editore. La donna che venne a parlarci disse una cosa che non dimenticherò mai, qualcosa che cambiò completamente, di lì in avanti, il mio approccio al libro: se un testo è buono, non ti serve girare a pagina 2 per capirlo. Era un’editrice e sosteneva che lei, per capire se un manoscritto fosse adatto o meno al suo catalogo, se valesse la pena di investirci soldi e fatica, leggeva solo la prima pagina. Se è proprio tanto buono, poi, basta addirittura l’incipit. La me dodicenne non ci mise molto a capire che quella donna avesse ragione e, in effetti, i libri più belli che abbia mai letto sono stati quelli che mi hanno convinto sin dalle prime righe. Questa regola, evidentemente arbitraria e che spero non condizioni il modo di vivere l’esperienza della lettura di nessuno, mi ha convinto dall’istante in cui l’ho aperto che Primo amore e altri affanni fosse proprio un ottimo prodotto. E non mi sbagliavo.
Edito da Fandango, tradotto in italiano nel 2011 da Grazia Rattazzi Gambelli e ripubblicato oggi a più di sessant’anni dalla sua nascita, la raccolta di racconti di Harold Brodkey è una delle prime opere dell’autore americano. Ognuna delle storie presenti nel testo era stata precedentemente pubblicata come racconto sul New Yorker nel periodo in cui il nome del giovane autore iniziava a girare nell’ambiente letterario statunitense per poi essere raccolte in un unico volume e pubblicate nel 1958. L’ambientazione tanto diversa dalla nostra e gli anni di vita dei suoi protagonisti così distanti da quelli che viviamo oggi non influenzano minimamente l’autenticità della sua scrittura. Perché la forza di Primo amore e altri affanni è proprio l’innegabile e immediata identificazione del lettore in quello che legge.
Sono giovani tutti i protagonisti dei racconti di Brodkey. Vanno dalla prima adolescenza ai tormenti di quella inoltrata, dagli anni dell’università ai primi anni di vita di matrimonio. Sono personaggi diversi, eppure legati da qualcosa. A una lettura superficiale può sembrare che le loro vite abbiano delle caratteristiche comuni, siano fatte dagli stessi tasselli ma composti in modo differente. La verità, però, è un’altra: le loro vite sono tutte dissimili, ma è ciò che provano ad accomunarli. L’autore ha l’innata e ammirabile capacità di raccontare, anzi, di mostrare il disagio adolescenziale e le crisi tipiche della giovane età. Sa descriverli attraverso i pensieri dei suoi protagonisti in modo talmente limpido e comprensibile anche per un adulto da riportare inevitabilmente il lettore di qualunque età alla sua giovinezza.
Si tratta di racconti diversi e, per di più, pubblicati singolarmente. Eppure, nel complesso questo libro presenta una coerenza da fare invidia a molti romanzi. Quelli che Brodkey racconta sono momenti apparentemente passeggeri della vita, forse considerati insignificanti se paragonati all’intera esistenza e a quei grandi momenti considerati punti di svolta, eppure in qualche modo importanti. Forse perché danno voce a quel disagio che troppo presto dimentichiamo ma che fa parte di noi così a lungo da non poter non influenzarci, forse perché sa mettere nero su bianco le sensazioni che noi non abbiamo saputo descrivere. O forse perché la sua penna presta la voce a quei pensieri tanto rumorosi nella testa che restano silenziati per il mondo esterno.
L’amore che sta nel titolo permea, in qualche modo, ognuno dei racconti. Non si parla, però, solo di amore romantico, ma di quel piccolo motore che muove tutte le decisioni della vita e che ha un peso ancora più grande da giovani. L’amore che sta nell’amicizia, nella famiglia, nelle passioni, l’amore che permette di prendere decisioni. Dopotutto, Brodkey è giovanissimo quando inizia a scrivere racconti per il New Yorker, poco più che ventenne, e ciò di cui parla lo conosce fin troppo bene. Solo, a differenza dei suoi coetanei, è in grado di spiegarlo anche a chi ha dimenticato di aver provato quelle stesse sensazioni. La trama, in Primo amore e altri affanni, non importa. Brodkey racconta le piccole cose della vita con estremo realismo, dà voce ai pensieri senza che essi debbano necessariamente portare a qualcosa. Ed è questo il bello di ognuno dei racconti: anche nei punti in cui non si parla di niente, in realtà si parla di tutto.
Sebbene non esista un solo protagonista, la sensazione finale, una volta chiuso il libro, è di aver letto un’unica storia spezzettata in diverse fasi della vita di un unico personaggio. Come se volesse raccontare qualcosa di universale, una storia che hanno già vissuto tutti. E, in effetti, è impossibile non sentirsi legati a quelle esperienze. Il lettore, seppur dal passato diverso, in qualche modo rivedrà se stesso e la sua giovinezza nelle parole di Brodkey, nelle sensazioni dei protagonisti dipinte così abilmente e mostrate senza la necessità di essere descritte. Ed è questa la forza di queste storie senza trame, non quello che accade ma quello che si sente.
Questi brevi ma intensissimi racconti del quotidiano di personaggi che potrebbero essere chiunque sanno restituire all’attimo la sua importanza. Ogni particolare, ogni piccolo e apparentemente insignificante pensiero dimostrano come la vita non sia una somma di pochi grandi eventi, ma un’evoluzione continua di piccoli momenti che contribuiscono alla creazione della storia di ognuno di noi. Dimostrano che è nel quotidiano che va cercato il nostro io e che non esistono momenti di passaggio perché anche i più immobili conservano lo spessore dell’identità. È questo che fa Primo amore e altri affanni: restituisce importanza ai momenti più piccoli e offre una possibilità a quei noi del passato a cui non siamo stati in grado di dare una voce.
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