Anche quest’edizione del Premio Strega, la 76esima del prestigioso concorso letterario, è giunta al termine. Questa volta posso ben dire di essere contenta dell’annuncio del vincitore: Mario Desiati, con il suo romanzo Spatriati, edito Einaudi (166 voti). Una storia che ho avuto il piacere di toccare nel tempo. Iniziata mesi fa, poi interrotta, ripresa e conclusa voracemente proprio alla vigilia della premiazione.
Spatriato, in italiano, è un sostantivo che deriva da patria e può significare recarsi, andare fuori dalla patria. La Treccani alla voce di ricerca suggerisce anche cacciare da quest’ultima. Nel dialetto martinese e in molti altri dialetti pugliesi, invece, spatriato può anche prendere un’accezione negativa e totalmente diversa. Gli Spatriati vengono etichettati come gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili, a volte i balordi o gli orfani, oppure i celibi e i nubili, i vagabondi e i girovaghi.
Inclassificabili. Sono coloro che sfuggono alle classificazioni sociali, che scelgono di andare controcorrente, spesso intraprendendo un viaggio vero e proprio per poter scoprire la strada che porta il loro nome. Sono coloro che si allontanano per salvarsi, per essere liberi. Ma bisogna davvero andare via per sentirsi liberi? A volte, sì. A volte, è necessario.
Francesco Veleno, protagonista e voce narrante del libro, è figlio unico di due ex atleti dilettanti, Elisa e Vincenzo. Forse uniti troppo giovani dal matrimonio, i suoi sono stati condannati dalla legge sociale del quieto vivere a rimanere insieme nonostante l’evidente disamore, crescendo, per tutta l’infanzia, il loro bambino con l’idea di essere stato un misterioso incidente messo al mondo. Così Francesco vive nella bolla di realtà costruita dai genitori, fatta di prescrizioni e pregiudizi, senza mai sbilanciarsi. “Uva nera” lo chiama sua madre, per via dei suoi capelli bruni e dell’incarnato olivastro. E l’uva nera si sa, gli viene ripetuto, ha sempre qualche chicco marcio in più.
Poi una fonte d’aria fredda incontra una massa d’aria calda: scoppia il temporale. Pioggia e fulmini, acqua e fuoco. Francesco conosce Claudia al liceo classico di Martina Franca e resta subito attratto dai suoi zigomi pronunciati, dai suoi capelli rossi e della cravatta maschile che porta al collo. Claudia viene soprannominata “la spatriata” da tutti i suoi compagni di scuola perché è diversa dagli altri ed è proprio questo che spinge Veleno ad avvicinarsi a lei.
Nella prima parte del romanzo, Francesco cerca di adeguarsi a ciò che gli viene imposto dalla famiglia, seguendo le regole del bravo ragazzo cattolico: frequenta con grande solerzia la parrocchia, diventa chierichetto e addirittura si avvicina alla vocazione. Un modo, tra le altre cose, per evitare di ascoltare quegli impulsi che da tempo cercano di suggerirgli alle orecchie chi è davvero. Il rapporto con Claudia, che prenderà evoluzioni sempre diverse per tutto il corso del romanzo, lo porterà a trovare la forza di affrontare quella parte di se stesso che ha sempre cercato di soffocare.
Non si può andare via senza graffi. Spinti prima l’una e poi l’altro dalla pressione sociale del paese, Francesco e Claudia espatriano davvero, portandosi dietro diverse ferite. Andare via non è semplice. Quando una persona decide di farlo vuol dire che è arrivato davvero il momento di chiudere qualcosa, di lasciare indietro un pezzo di sé anche solo per un po’ e la verità è che il distacco fa sempre male, che lo si voglia o no.
Quattro anni fa anche io ho deciso di andare via. Anzi, ho deciso proprio di scappare. Ero in piazza, sull’altalena, raccontando al mio migliore amico che tutto stava diventando reale. I miei a cena avevano detto che una soluzione economica si sarebbe trovata, potevo partire. Lasciavo la Puglia. È stata una delle notti più incredibili della mia vita, difficile dimenticarla quella sensazione. Pagina bianca: si riscriveva tutto daccapo. Ero emozionata, euforica, pensavo all’università e ai nuovi inizi, eppure, in quel momento, per la prima volta ebbi anche paura di compiere quel salto. Mi sentivo stordita, e un po’ triste.
In questo, quindi, mi sono ritrovata tanto nell’indecisione iniziale di Francesco, nel suo percepire la partenza come un fallimento, come una rinuncia, nell’attaccamento apparente che dimostra nei confronti della sua terra. La Puglia, in particolare la zona della Gravina e della Valle D’Itria, viene descritta da Desiati con toni quasi idilliaci. L’odore degli ulivi, il profumo dei limoni, la bellezza delle casette in tufo bianco, della gravina. Da pugliese, devo ammettere che leggere di queste visioni mi ha fatto provare molta nostalgia e allo stesso tempo mi ha trasmesso calore, mi ha permesso di respirare un po’ l’aria di casa, di ritrovarla.
In contrasto al paese di Martina Franca, viene descritta Berlino – la città metropolitana del progresso, della musica, delle promesse – dove i due ragazzi si recano e trascorrono gran parte della loro vita, esplorando il proprio modo di essere e di costruire la loro identità sessuale. A un certo punto, però, qualcosa cambia di prospettiva. Un vero viaggio si completa solo con il ritorno, diceva Heidegger, ed è quello che fa Francesco: torna in Puglia, ma non da sconfitto. Torna per sabotare il posto dove è cresciuto.
Crestienə: sostantivo del dialetto pugliese che indica non colui che professa la religione cristiana, ma l’uomo in generale, inteso come individuo qualunque. Molto prima che lo scevà potesse essere individuato in termini di inclusione del linguaggio nella lingua italiana, il dialetto era già inclusivo da diversi anni. Non c’è genere, non c’è distinzione tra essere femminile e maschile.
A c’appartin? A chi appartieni? Come ti metti? Come i protagonisti di Spatriati e, per riflesso autobiografico, anche per l’autore del romanzo – come affermato durante la serata di premiazione da Mario Desiati – molte persone non vogliono definirsi sessualmente o socialmente e si ritrovano costrette a vivere in un mondo che le respinge ai margini, che chiede loro in tutti i modi di rispettare le etichette prestabilite, che altrimenti le condanna.
La questione sociale esiste in ogni ambito, non solo nelle periferie o nelle province, ma anche nelle grandi città, nelle famiglie, sui luoghi di lavoro. Ricordiamo soprattutto la recente scomparsa della professoressa transgender Cloe Bianco, che non ha potuto vedere altre soluzioni oltre al suicidio. La pressione sociale è pericolosa, ormai un’emergenza, e bisogna raccontarla. In questo, un grande potere può averlo la letteratura e l’opera di Desiati non si tira indietro: è un esempio di impegno, responsabilità e anche coraggio.
Di avere coraggio l’autore lo ha anche dimostrato nel momento della consegna della classica bottiglia di liquore, rifiutandosi di berla secondo il rito tradizionale e annunciando di volerla conservare per poterla consumare in Puglia, nella sua Martina Franca, omaggiando gli scrittori della sua terra Mariateresa di Lascia, vincitrice del Premio Strega nel 1995; Franco Cassano, sociologo del Mezzogiorno, nonché punto di riferimento dell’autore; e, infine, l’amico Alessandro Leogrande, anime strappate troppo presto da quelle terre a cui Mario Desiati ha deciso di dedicare la vittoria.
Ciascuno di noi a modo suo è un po’ Spatriato, con le radici strappate da una parte e trapiantate altrove, oppure – come dice Claudia a un certo punto della storia – con le radici in cielo, ovunque eppure da nessuna parte, costantemente alla ricerca di nuovi stimoli, desideroso di lasciare qualcosa e poi di tornare sui propri passi, in un cerchio che sembra un magico ed eterno ricominciare.
Contributo a cura di Martina Rizzo