Il colosso PornHub si trova da giorni al centro di aspre accuse scatenate da un editoriale a firma di Nicholas Kristof sul New York Times. In quella sede, il celebre giornalista denuncia la piattaforma di monetizzare video contenenti scene di abuso su ragazze minorenni, violenza sessuale e misoginia. Per farlo, ha raccolto le testimonianze di superstiti – così le chiama – che ancora a distanza di moltissimi anni continuano a essere perseguitate dalla presenza sul sito di contenuti che le ritraggono durante la violenza subita.
Il player della piattaforma, infatti, permette agli utenti di scaricare liberamente i video e questo si traduce nell’impossibilità materiale di rintracciarne ed eliminarne tutte le copie esistenti. Questa è solamente una delle criticità emerse dall’editoriale Le bambine di PornHub, insieme ad altre perniciose inattuabilità: quella di sottoporre a moderazione l’enorme mole di contenuti caricata quotidianamente, quella di determinare se l’abuso sia reale o simulato, se la persona presente nel video sia consenziente o meno, maggiorenne oppure no.
L’articolo innesca una reazione a catena impressionante: MasterCard e Visa seguono l’esempio di PayPal e bloccano la possibilità di effettuare donazioni sul sito con le carte afferenti ai loro circuiti. Inoltre, tra le petizioni che fioccano in rete per sollecitare la chiusura della piattaforma, emerge quella citata specificamente con link diretto nell’articolo di Kristof dal nome suggestivo di TraffickingHub. Il colosso si piega, modifica i termini del sito, impedendo finalmente la possibilità di scaricare contenuti e di caricarne di nuovi se non si possiede un account verificato. Fin qui sembra tutto lineare, una concatenazione di causa-effetto alimentata dalla rettitudine morale. In realtà, quanto sta succedendo in queste ore a PornHub va analizzato con attenzione, perché se è vero che da un lato la necessità di un intervento deciso sulle tech company come MindGeek – che possiede PornHub – diventa sempre più impellente a causa del ruolo che i titani di internet giocano nei fenomeni di violenza di genere e diffusione non consensuale di contenuti multimediali a sfondo sessuale, dall’altro bisogna pur interrogarsi sui rapporti di potere e sulle circostanze che determinano tali interventi. Invitiamo, pertanto, a diffidare dalle letture semplicistiche di un fenomeno così complesso, anche quando godono del supporto di grossi media.
PornHub è un fenomeno pop: il consumo di pornografia su internet impegna milioni di utenti ogni giorno. Il sito genera più visite di Netflix al mese – la stima è intorno ai tre miliardi e mezzo – e incentiva con le proprie attività promozionali una percezione modaiola del brand: vende merchandising con il logo, incoraggia campagne per la salvaguardia dell’ambiente e per i diritti civili. Una pornografia patinata, socialmente accettabile perché coacervo identitario del consumatore un po’ irriverente.
Dietro la narrazione di PornHub c’è, di fatto, un monopolio. Il modello di business di MindGeek è tutto fuorché rivoluzionario: capitalismo allo stato puro. Negli anni, la società ha messo su un ecosistema-vampiro dell’industria del porno. I siti del circuito guadagnano dagli annunci e dai banner pubblicitari disseminati intorno ai video. Gli utenti, i video, possono guardarli gratis. Per questo motivo, siti come PornHub sono divenuti in breve tempo contenitori di pirateria: ospitano gratuitamente interi spezzoni di film a luci rosse girati per la clientela pagante. Più che democratizzare la pornografia rendendola accessibile a tutti, MindGeek ha demolito la produzione di film hard, spinto sul lastrico le professionalità del settore, polverizzato ogni concorrenza. Poi? Poi li ha fagocitati comprandoli a prezzo stracciato. Oggi il circuito possiede, oltre a siti come PornHub, YouPorn e RedTube, anche le case che producono i film che poi finiscono clandestinamente in upload sulle piattaforme sopracitate. Il profitto di MindGeek, proveniente dalla monetizzazione dei video, è al sicuro. Quello dei professionisti del cinema porno, invece, è schiavo del monopolio.
I tentacoli del colosso hanno potuto allungarsi a tutto il settore perché, se il consumo di pornografia è quasi diventato trendy, il discorso legato alla tutela dei professionisti del sesso – e del porno – è ancora argomento tabù, che vive e respira solo nella penombra di internet: le proposte e le richieste di regolamentazione e regolarizzazione del sex work nel mondo reale si ingolfano sempre nel dibattito etico. Sono anni che i professionisti del settore cercano di far ascoltare le proprie voci, anni che denunciano condizioni di lavoro sempre più precarie a causa del modello di business vampirico di PornHub. Vex Ashley, performer del porno indie, ironizza su Twitter: È divertente vedere come le persone che hanno sempre parlato di questo, quelle i cui mezzi di sussistenza sono stati piratati e i cui profitti sono stati decimati per anni vengano ignorate ma il fottutissimo Kristof scrive un solo editoriale di merda e all’improvviso il muro crolla con uno schiocco di dita. A quanto pare era facile.
La frustrazione dei sex worker e dei performer è palpabile e quanto mai comprensibile: a subire concretamente le conseguenze della scelta di MasterCard e Visa di tagliar fuori PornHub sono i creator della piattaforma. Come dicevamo, la monetizzazione dei video fruibili gratuitamente dipende dalle pubblicità, non direttamente dalle donazioni degli utenti o dai programmi di abbonamento. Le possibilità di “carriera” sul sito si incentrano sul ModelHub e su programmi analoghi di partnership che permettono di offrire contenuti a pagamento alla propria clientela online. Il blocco di Visa e MasterCard, dunque, rischia di esporre ancora di più al precariato una categoria già duramente colpita dalle involuzioni del mercato del porno avvenute negli ultimi anni.
Mentre scriviamo, PornHub annuncia di accettare, da questo momento in poi, esclusivamente pagamenti in criptovaluta per i suoi contenuti premium. Una delle caratteristiche principe delle criptovalute come Bitcoin è la garanzia di anonimato per chi ne fa uso. Siamo sicuri che rendere più che mai invisibili i flussi di denaro sulla piattaforma sia utile alla battaglia contro l’abuso su minori? Siamo sicuri che, invece, i recenti sviluppi non espongano quelle stesse categorie di soggetti a rischi più alti? Inoltre, il fatto che MindGeek abbia preso provvedimenti apparentemente importanti – come la sopracitata eliminazione della possibilità di scaricare i video – non dopo sollecitazioni politiche, ma dopo il polverone sollevato dalla stampa che ha portato alla sospensione dei rapporti con MasterCard e Visa, deve indurci a riflettere sul ruolo di primo piano che i media ancora svolgono nella percezione e nella ricezione dei fenomeni che riguardano la società. In secondo luogo, suscita un’importante questione anche il fatto che ormai, più che le sanzioni governative, a dettare e determinare i comportamenti del mercato e della aziende sono i mercati stessi e questo espone il nostro assetto sociale allo sbilanciamento dei rapporti di potere.
Come sostengono moltissimi lavoratori del porno e alcuni giornalisti vicini all’ambiente, combattere l’abuso, lo sfruttamento e la violenza su ragazze minorenni non è il vero obiettivo di chi propugna petizioni per far chiudere PornHub. Piuttosto, le storie d’abuso servono da ariete nella crociata contro la pornografia dei gruppi della destra estrema cristiana che, attraverso un vero e proprio rebranding fatto di un uso accorto delle parole per mitigare i dettagli più estremi della loro agenda, reclutano tra le proprie fila sia i liberali che i progressisti. Nonostante il corpo della petizione neghi ogni affiliazione religiosa, non è difficile, da TraffickingHub, risalire a Exodus Cry, una no-profit legata all’estremismo cristiano con vette di omofobia e antisemitismo. Del resto, la petizione e l’articolo di Kristof fanno ricorso a una fallacia logica piuttosto convincente: se sui siti porno si trovano contenuti di violenza diffusi senza il consenso della vittima, opporsi alla chiusura delle piattaforme equivale all’accettare la presenza di tali contenuti, equivale a mettersi dalla parte dell’aguzzino.
Sul sito di Exodus Cry si legge: L’industria del sesso è un sistema globale di violenza, sfruttamento e disparità di genere che comprende la prostituzione, la pornografia e lo stripping. […] Quest’industria predatoria depreda i soggetti più deboli della nostra società. È alimentata dalla domanda degli uomini e ha bisogno costante di offerta di donne e bambini che sono venduti per il profitto dei trafficanti, dei magnaccia. Nell’editoriale, Kristof specifica che il problema non è la pornografia, ma la violenza sessuale – e ci mancherebbe – ma poi equipara PornHub a noti predatori sessuali quali Harvey Weinstein, Jeffrey Epstein, Bill Cosby. L’industria del sesso è indubbiamente problematica e i meccanismi di sfruttamento della prostituzione sono sicuramente presenti. Tuttavia, ribadiamo ancora che semplificare in questi termini l’enorme realtà dietro il sex work e i sex workers quasi mai danneggia chi trae profitto dallo sfruttamento dei corpi e dall’abuso.
Quando parliamo di sex workers, dobbiamo pensare anche a quei soggetti marginalizzati per i quali il sesso rappresenta spesso l’unica o la principale fonte di sostentamento ed emancipazione: questa è ancora la realtà per buona parte della comunità trans e per le donne e ragazze immigrate, di etnia diversa da quella egemone. Affrontare la questione PornHub senza ridimensionarla nel contesto più ampio della discriminazione su base razziale, sessuale e di classe vuol dire far torto a quelle persone, ricacciarle ai margini, negar loro la dignità. Nel suo articolo per il Times, Kristof indugia morbosamente sui dettagli più disgustosi dei video di violenza presenti sulla piattaforma: li descrive con dovizia di particolari, addirittura cita i tag da digitare nella barra di ricerca per accedere a quegli stessi contenuti di cui denuncia la presenza, titilla l’indignazione del lettore soffermandosi su particolari quali l’utilizzo di slogan legati al movimento BLM (We can’t breathe) nei titoli di video raffiguranti donne asfissiate con buste di plastica.
Kristof ha raccolto testimonianze per mesi e il suo lavoro di ricerca è partito da uno scambio con Rose Kalemba, donna nativa vittima di stupro nel 2009, quando aveva solo 14 anni. Il video della sua violenza era stato caricato su PornHub, ma lei era riuscita a farlo eliminare dal sito solo dopo essersi finta avvocato e aver minacciato la piattaforma di intraprendere vie legali. PornHub ha reso immortale la sua tortura, dichiara ancora adesso su Twitter. Kalemba oggi è un’attivista che rifiuta il silenzio: il silenzio è l’arma dello stupratore, che più di ogni altra cosa teme di riconoscere la potenza della voce di chi ha subito. La sua è una storia di tenacia e rinascita, di coraggio e forza. Kristof, che pure in uno scambio privato di messaggi con Kalemba la descrive come pioniera del suo lavoro, si appropria dei dettagli più rivoltanti della sua vicenda e non la cita neppure nel pezzo. La violenza subita da Kalemba e da tantissime altre donne e ragazze diventa, nell’editoriale del New York Times, strumento d’accusa della pornografia tout-court. Le bambine di PornHub sono state abusate due volte, due volte private di agency e identità: dalla politica aziendale di PornHub e dalla stampa.