Si chiamano giornalisti, e i giornalisti, si sa, hanno il compito di fare informazione. Fare informazione significa andare sul campo, conoscere, intervistare, indagare, diffondere e rendere note notizie che, altrimenti, ignoreremmo. Per mancanza di mezzi, strumenti e anche competenze.
Si chiamano giornalisti e, se alcuni di loro non ci fossero o non ci fossero stati, probabilmente oggi il mondo sarebbe ancora più sporco e gli occhi con cui lo guardiamo più ingenui, troppo.
Fare informazione, però, non significa arrogarsi il diritto di dire qualsiasi cosa e, soprattutto, nei termini che si vuole. A tal proposito, è delle ultime ore l’indignazione dovuta all’ennesima a dir poco imbarazzante copertina, dedicata a Virginia Raggi, del quotidiano Libero. Sulla pagina incriminata, infatti, alla foto del Sindaco di Roma – da donna, il maschile è fortemente voluto – è affiancato il titolo, tanto sessista quanto volgare, Patata bollente che sta suscitando non poche reazioni. Da ogni dove, infatti, stanno giungendo attacchi – più che ragionevoli – all’ex giornale di Belpietro per l’espressione utilizzata, ritenuta ingiuriosa e di cattivo, pessimo gusto.
Dagli esponenti del Movimento 5 Stelle, a quelli del PD, fino al Presidente Boldrini, infatti, tutti si sono schierati, all’unisono, a difesa del Primo Cittadino della Capitale. In effetti, la mala amministrazione e la legalità di ogni sua azione – che sarà la giustizia a decretare – nonché le probabili e numerose liaison “scomode” a lei attribuite nel corso delle indagini, non sono assolutamente sufficienti a giustificare simili titoli, facilmente equivoci e ascrivibili come misogini.
A spada tratta, invece, sostenuto da personaggi come Vittorio Sgarbi, si è discolpato Vittorio Feltri, fondatore e attuale direttore della testata – tra le più discusse e discutibili d’Italia – il quale non ritiene, in alcun modo, di doversi scusare. A suo dire, infatti, l’ambiguità dell’espressione è riscontrabile negli occhi di chi legge e non del titolista, che pare faccia riferimento alla governabilità di Roma, “patata bollente” appunto, perché grosso e difficile grattacapo. Il direttore, inoltre, ha ammesso che non è la prima volta che il suo giornale fa uso di tali modi di dire. Un esempio da lui stesso citato – più che altro per farne una questione politica e ingraziarsi, come se non bastasse, l’ex, ahinoi, premier Silvio Berlusconi – è da cercarsi tra le molteplici pagine dedicate al movimentato governo dell’imprenditore milanese alle prese con “Olgettine” e Ruby Rubacuori.
L’episodio che ha visto vittima Virginia Raggi, però, è solo uno dei tanti, troppi esempi di un giornalismo che, negli ultimi tempi, si fa non poca fatica a definire tale. Un giornalismo che raramente ragguaglia e indaga, preso così com’è dal gossip, dal becero qualunquismo, dalla scarsa qualità e dalla più grossolana volgarità. Un giornalismo la cui funzione educativa e formativa ha fortemente cambiato accezione. Sfogliare un giornale, infatti, è, ormai, spesso ottima palestra per apprendere o potenziare un frasario poco consigliabile a un pubblico minorenne e non solo, dove parolacce e offese gratuite si sprecano, e allungare la lista di quelle notizie che non ci interessano – e non dovrebbero interessarci, dato il quoziente intellettivo – ma che servono a distrarre e spostare i riflettori. Un giornalismo vittima della disinformazione e della faziosa e parziale informazione.
Non è facile avere una notizia, oggi. Basti pensare che per agguantarne una o, perlomeno farsene un’idea, è necessario cimentarsi in una certosina opera di taglio e cucito tra le righe delle varie testate, dalle più alle meno gettonate, affinché anche una piccola percentuale di quanto ci accade intorno sia da noi percepita. D’altro canto, la stampa più importante del nostro Paese è nelle mani di politici, industriali e banche. Gli esempi più lampanti, senza dubbio, sono da ricondurre al Corriere della Sera, di proprietà RCS – al cui CdA siedono esponenti di Indesit, Telecom Italia, Mediobanca, Intesa San Paolo e FIAT –, a La Repubblica – del Gruppo l’Espresso di Carlo De Benedetti – a Il Giornale – edito da Mondadori, quindi dalla famiglia Berlusconi – a Il Mattino di Napoli e al Messaggero di Roma – di Caltagirone Editore (collegato anche a Pier Ferdinando Casini). Infine, a Libero i cui proprietari sono la Fondazione San Raffaele e, quindi, la famiglia Angelucci, nella persona di Giampaolo Angelucci (anche agli arresti domiciliari per falso e truffa ai danni delle ASL). Ironia della sorte, la stessa famiglia, dunque il gruppo Tosinvest, è anche editore del compagno Il Riformista. Curioso, no? Tralasciamo volutamente, poi, le riviste settoriali di indirizzo economico delle quali ad analizzare i Consigli di Amministrazione verrebbero i capelli bianchi.
Si può parlare, allora, di una stampa libera da ingerenze e faziosità di qualunque tipo? Si fa fatica ad annuire positivamente. Come potremmo affermarlo? Se chi che scrive è pagato da colui sul quale, molto probabilmente, il più delle volte dovrebbe indagare, siamo certi che le storie che ci propinano siano vere? Fino a che punto, poi? Quanto viene mistificato o celato del tutto?
Il punto non è analizzare quale sia la sfera politica di appartenenza o il potente di turno da coccolare. Un articolista, in quanto essere umano, è ovvio che abbia delle opinioni e delle ideologie forti, così come è quasi inevitabile che esse si evincano dai suoi testi. Il punto sta nel non fare propaganda o, peggio ancora, campagna elettorale. Sta nel non presentare il fatto da un unico punto di vista che influenzi e fornisca una versione errata o poco esaustiva della questione. Sta nel non difendere ma condannare l’indifendibile come, tristemente, proprio le vicende del periodo berlusconiano – ma non solo – non insegnano. Sta non nel dare spazio e visibilità a chi non può e non deve averne perché la sua figura non arricchisce, bensì impoverisce il retaggio culturale del pubblico lettore o, talvolta, addirittura lo offende. Ma, quando a finanziare la carta stampata e qualsiasi organo di informazione sono colossi come quelli sopra elencati, immaginare che certi principi vengano messi in pratica è compito piuttosto arduo.
La libertà di stampa sancita dalla Costituzione nell’articolo 21, da considerare come diritto del giornalista a informare – non a beceri titoloni stile Libero – piuttosto che del cittadino a essere informato, nei fatti da chi è difesa? Vale semplicemente il proprio nome stampato o, peggio ancora, lo stipendio?
Si chiamano giornalisti, e tali si dovrebbe nascere, non diventare. Un po’ come per medici o insegnanti, si dovrebbero rivestire quei ruoli per vocazione, piuttosto che per la convenienza della scelta. Eppure, a leggere le firme che riempiono i nostri quotidiani, qualche dubbio sorge spontaneo.