Anche questa volta, non siamo pronti per la campagna elettorale. Non siamo pronti per la comunicazione politica che ci aspetta nel mese che separa questo momento dalle elezioni. Non siamo pronti al linguaggio del populismo parlato da tutti gli esponenti di tutte le fazioni, né alle scelte comunicative dei media, che si fanno complici silenziosi del degrado della politica. Non siamo per niente pronti, eppure nessuno può salvarsi. Nella purtroppo inevitabile era del populismo, anche la comunicazione politica risente delle dinamiche malsane che muovono le campagne elettorali della contemporaneità. Anzi – a essere sinceri – è quasi tutta esclusiva comunicazione la politica di oggi, fatta di avvicinamento al popolo e di politainment.
L’infotainment è la parola chiave della comunicazione contemporanea, basata poco sulla necessità di fornire informazioni ai cittadini e molto sul concetto di intrattenimento. La crasi tra information ed entertainment rende perfettamente l’idea sulla dieta mediatica dell’elettore medio, che si ciba di contenuti dall’alto apporto emotivo, si delizia con informazioni relative alla vita privata dei candidati e si nutre di dettagli scabrosi che nulla hanno a che fare con l’agenda di governo. Allo stesso modo, anche la comunicazione politica, necessariamente filtrata dai media, subisce lo stesso processo e diventa un ibrido.
Se con l’infotainment, infatti, la politica viene resa dai mezzi di comunicazione più leggera e fruibile, tanto da diventare quasi una forma di intrattenimento, con il politainment è la politica stessa e, dunque, gli stessi esponenti e leader che si rendono spettacolo, adottando il linguaggio della cosiddetta celebrity politics. Essa consiste nella trasformazione dell’attore politico in una celebrità, in un personaggio pubblico dalle connotazioni tipiche del personaggio dello show business. Il programma elettorale non basta più a decretare il successo politico, la celebrità diventa fondamentale e la comunicazione giusta è l’unico modo per raggiungerla. Non è un caso, dunque, se accade spesso che esponenti del mondo dello spettacolo diventino politici.
Non si tratta però di un fenomeno recente, quanto di un processo iniziato svariati decenni fa, con l’avvento del medium televisivo. Il primo e più emblematico caso risale infatti al 1960, anno in cui fu trasmesso il primo dibattito politico televisivo. Si trattava delle elezioni presidenziali americane, e il confronto vedeva l’allora vicepresidente Nixon, fino a quel momento favorito dai sondaggi, e l’avversario Kennedy. Se per gli ascoltatori in collegamento radio il dibattito non si rivelò decisivo, fu la presenza scenica di Kennedy a ribaltare le previsioni di chiunque avesse guardato lo scambio in televisione. A partire da quel momento, la comunicazione politica del mondo occidentale è cambiata, diventando sempre più intrattenimento, sempre più emozionale, e sempre meno politica.
Può sembrare che tutto questo non c’entri nulla con la comunicazione politica odierna e, soprattutto, con quella relativa all’attuale campagna elettorale. Eppure, quello che vediamo adesso è la naturale evoluzione di quel momento. Oggi, la comunicazione politica – e dunque la politica – è unicamente performance, veicolata non più attraverso il mezzo televisivo ma attraverso i social media. Non sono più importanti i programmi elettorali, quanto il modo in cui si parla ai cittadini.
Fino a pochi anni fa ci sembrava che questo tipo di approccio fosse adottato unicamente dalla destra, l’unica forza populista che riuscivamo a identificare. Precursore italiano di questo processo è stato a lungo Matteo Salvini, che con la sua comunicazione emozionale fatta di slogan pieni di odio e condivisioni quotidiane di frammenti della sua vita privata, ha fatto del politainment il suo marchio di fabbrica. Mentre lui gridava prima gli italiani e chiudiamo i porti, però, un altro esponente della destra italiana ha iniziato, molto più silenziosamente e molto più sapientemente, la sua ascesa nella comunicazione populista. Se per anni Salvini è stato il case study di tutti gli approfondimenti sulla comunicazione politica emozionale insieme alla sua controparte americana Donald Trump, Giorgia Meloni ha lentamente iniziato la sua scalata, iniziando con il parlare di gender delle scuole. Dopotutto, quale tema più populista, più sposta-masse, più emotivamente acclarato se non quello di salviamo i bambini?
Questo tipo di comunicazione, basato più sulla componente emotiva che su quella razionale, fondato sulle reazioni che parlare alla pancia dei cittadini poteva garantire, è stato il principale successo delle destre degli ultimi anni. Eppure, non è solo una loro prerogativa. Qualche tempo fa su questo giornale dicevamo che oggi tutte le forze politiche sono populiste, che è difficile trovare un esponente che non si faccia largo sulla strada della popolarità – o, meglio, celebrità – senza il ricorso a politiche populiste. E l’attuale campagna elettorale lo sta dimostrando.
La prima che salta inevitabilmente all’occhio è la strategia comunicativa di Giuseppe Conte. Da serioso e autoritario mentre era al governo, oggi si è iscritto su TikTok. Non è però tanto l’impiego del mezzo, che potrebbe aiutarlo ad avvicinarsi ai giovani, a rendere la sua comunicazione discutibile, quanto il modo in cui lo usa: solo per brevissimi video in cui critica i suoi avversari politici. Ma se dai partiti populisti per eccellenza certe cose dovremmo aspettarcele, ci aspettiamo invece che i media facciano il loro lavoro, limitando, contestualizzando e svelando queste situazioni. E invece essi sono la giusta spalla proprio per questo tipo di politica. Non c’entrano, però, l’imparzialità o le ideologie dei giornali, perché questa tendenza riguarda in egual misura tutti.
Sin dall’inizio di questa campagna elettorale, la stampa estera ha cominciato a preoccuparsi delle inclinazioni fasciste della favorita alle nostre elezioni. Il video pubblicato da un’agenzia internazionale che ha fatto il giro del web negli ultimi giorni – che ritrae una Meloni diciannovenne definire Mussolini un grande politico – è stato una mossa mediatica estremamente servile al politainment. Delle inclinazioni neofasciste di Meloni era facile accorgersi già da tempo – da prima che la lente d’ingrandimento dei media internazionali ne facesse un caso e ancor prima che qualcuno si mettesse a ricercare l’origine della fiamma ritratta nel simbolo del suo partito. Eppure, stanare un video di venticinque anni fa per scatenare l’indignazione popolare non è forse la mossa più corretta di tutte. Perché non è il suo programma politico – che, a leggerlo, fa rabbrividire – a essere indagato, perché non sono le parole che pronuncia pubblicamente da quando è in politica a scandalizzare, ma è qualcosa che ha detto quando aveva 19 anni?
Ecco, è qui che si insinuano le differenze tra la politica vera, quella fatta di programmi, di razionalità e sì anche di comunicazione, l’informazione vera, quella fatta di analisi, di dati e di critica, e l’intrattenimento, pensato per divertire il pubblico, per indignarlo, per scatenare una reazione emotiva, qualunque essa sia. È questa la disfunzione delle società contemporanee, che cancella l’utilità in favore dell’attenzione. Ed è questo il motivo per cui non capiamo e non sopportiamo le campagne elettorali, prive di programmi e fatte solo di parole. Perché la politica, oggi, non è più politica. È solo intrattenimento. Ed è esattamente ciò che ci stano dando.