Il piano del governo italiano di aumentare le spese militari del Paese fino al 2% del PIL ha subito un’inaspettata frenata in Senato grazie all’opposizione del MoVimento 5 Stelle. Nella giornata di ieri, 31 marzo, Palazzo Madama ha posto la fiducia sul discusso Decreto Ucraina, ottenendo la maggioranza di cui necessitava dopo essere stato costretto, però, a depennare l’emendamento che prevedeva l’ascesa degli investimenti in materia di difesa. Buona notizia? Solo a metà…
Nonostante il voto compatto alla Camera, i pentastellati guidati da un Giuseppe Conte rinsaldato nella sua posizione di leader hanno approfittato del malcontento venuto a galla da parte di quell’opinione pubblica che, dopo due anni di pandemia, chiedeva risposte in merito ai continui tagli operati ai danni di sanità e istruzione al contrario di questa nuova, clamorosa gittata di denaro nelle case dell’esercito, e hanno preteso di votare il provvedimento senza quella specifica clausola.
La stampa grillina è tornata, così, a colorarsi di giallo senza l’imbarazzo di trovare giustificazioni ai dietrofront di questi anni, e l’elettorato ha colto subito l’occasione per rivendicare la differenza tra loro e gli altri. La propaganda in vista delle elezioni 2023 – ne siamo certi – partirà proprio dal voto di ieri mattina.
Una buona notizia – lo dicevamo – a metà, dato che l’incremento delle spese militari non è stato scongiurato del tutto, ma soltanto rimandato al 2028, con un aumento progressivo che permetterà, in ogni caso, all’Italia di mantenere gli impegni presi con gli alleati, come repentinamente sottolineato dal Ministro della Difesa Lorenzo Guerini, del PD.
L’Italia, dunque, non solo non ripudia la guerra – come Costituzione vorrebbe – ma persino la finanzia. Viene, così, da chiedersi: in caso di un conflitto tra o prossimo ai nostri confini, a chi toccherebbe combatterlo?
La risposta è il risultato di un’analisi che parte da lontano, dal dopoguerra, e che, anno dopo anno, ha rinsaldato il prodotto di un’equazione drammatica: il Sud. Meno risorse si traduce in una corsa alle armi senza precedenti da parte dei ragazzi del Mezzogiorno, alla divisa vista come unica possibilità di un lavoro stabile, sinonimo di sicurezza economica. Basta recarsi sul sito del Ministero di riferimento per imbattersi in una tabella inequivocabile: le regioni di provenienza del nostro esercito sono al 50.8% quelle del Sud, al 20.7% le Isole, al 16.5% del Centro e, manco a dirlo, solo al 9.4% del Nord.
Nelle aree del Paese in cui si investe di meno, i giovani tendono a considerare quella militare come una strada concreta per il loro futuro, al contrario dei propri coetanei del Settentrione, che si iscrivono all’università o prendono parte a costosi percorsi di formazione professionale anche all’estero.
L’ultima fotografia del Paese pre-Covid rilevata dall’Istat – ricorda Starting Finance – indica il Nord-ovest al primo posto nella graduatoria dei livelli di Pil pro capite, con un valore in termini nominali di circa € 37mila, quasi il doppio di quello del Mezzogiorno, pari a poco più di € 19mila annui.
Uno studio dello SVIMEZ, il centro di ricerca pubblico sullo sviluppo del Sud Italia, soltanto nel 2019 mostrava come il Nord ricevesse una percentuale della spesa pubblica di gran lunga superiore al Sud, 13400 euro contro i 10900 del Mezzogiorno. A rincarare la dose, vi è il dato per cui tra il 2008 e il 2018 la spesa pubblica è aumentata al Centro-Nord (+1.4%) e diminuita in modo significativo al Sud (-8.6%).
Dunque, armi, addestramento militare e caserme sì, infrastrutture, scuole, treni e stazioni no. I soldi al Sud si stanziano esclusivamente per convincere i ragazzi senza altre speranze a vestire la tuta mimetica. A dar credito a questa affermazione vi è il dato Bankitalia di marzo 2021 per cui il tasso medio calcolato in termini di disoccupazione vedeva il Nord avente la percentuale più bassa al 6.1%, il Centro all’8.62% e il Sud al 15.16%, con il dato per ciò che riguarda le nuove generazioni che tocca il 33% a livello nazionale.
Altro che comandano i terroni, come titolava Libero appena qualche anno fa, semmai combattono… per quelli del Nord seduti in poltrona a fomentare le divisioni, con buona pace anche del nuovo corso del giornale La Repubblica, i soldati italiani (di cui il 25% è proveniente dalla Campania) e l’esercito riceveranno comunque i fondi che il quotidiano invoca per scongiurare che il Paese retroceda nella serie B degli alleati.
Soldati e divise da acclamare, da sfoggiare all’altare di Piazza Venezia, ma non da tutelare nei loro diritti fondamentali, dato che proprio a causa dell’elevato numero di reclute provenienti dal Mezzogiorno, per gran parte di queste il sogno di un ritorno a casa, di un ricollocamento nei luoghi d’infanzia resterà per sempre un miraggio. Allo stesso modo, proprio quel divario in materia di investimenti e infrastrutture non consente ai giovani militari di Napoli, Bari, Reggio Calabria o Palermo di fare rientro alle stesse condizioni dei – pochi – colleghi di casa in Toscana o nel Lazio, con gli spostamenti verso il Sud o le Isole non solo obsoleti, ma oltremodo costosi.
La guerra, dunque, non solo il Sud la subisce da sempre, ma la combatte anche. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, recita il nostro inno. Risponde il Mezzogiorno, ma la patria non c’entra.