Estate chiama horror, talvolta deludenti, talvolta ben sopra le aspettative. Questi mesi siamo stati sorpresi e deliziati da una pellicola spagnola uscita in sordina ma che ha comunque saputo far parlare di sé oltre le sale (dove purtroppo è stata un po’ snobbata). È Piggy (Cerdita), opera prima di Carlota Pereda. Il film è tratto dall’omonimo cortometraggio della regista stessa, vincitore nel 2019 del Premio Goya e del Premio Forqué.
Approdare al trailer di Piggy è la prima ottima esperienza. Durante un’afosa estate in un borgo rurale dell’Estremadura, una ragazza goffa e molto in sovrappeso viene costantemente bullizzata dai suoi coetanei. Il rancore e il desiderio di vendetta che cova dentro di sé sono, dunque, forti, soprattutto quando qualcosa di terribile, nei boschi del suo paese, succede davvero. Se queste prime scene abilmente miscelate e volutamente fuorvianti bastano a far venire l’acquolina in bocca, va detto che esiste una regola: niente è come sembra.
Tralasciando le solite manie di protagonismo italiane, con ridicoli sottotitoli come non ti conviene farla arrabbiare – potevano risparmiarcelo –, il film mostra da subito il suo intento anticonvenzionale, distaccandosi dai soliti stilemi horror che tutti conosciamo e che troppo spesso vediamo abusati, per intraprendere una via molto autoriale, riflessiva, difficile da prevedere. Nessun jumpscare (grazie al cielo) ma parecchio sangue, non va negato. Pereda riprende il canonico e già visto revenge movie per poi stravolgerlo, conferendogli linfa nuova e rendendo Piggy più attuale, onesto, spietato che mai. Una storia umana. Una storia colma di contraddizioni. Chi sono i carnefici e le vittime, in fin dei conti?
La trentasettenne (ma ne dimostra molti meno, davvero) Laura Galán è la nostra protagonista, Sara, adolescente emarginata e perennemente insicura, specie a causa del bullismo e del body shaming da parte delle sue appariscenti, snelle e insensibili coetanee. La chiamano piggy, maialina, per il suo peso, le tirano dei colpi molto bassi, insultandola e fotografandola di nascosto mentre aiuta suo padre nella macelleria di famiglia, circondata da carcasse di animali. Sara si percepisce fuori dal mondo, sente di non essere compresa da nessuno, neppure dalla sua famiglia che sì, le vuole bene, ma è incapace di provare quell’empatia che un genitore dovrebbe avere con una figlia di quell’età e con quelle problematiche.
È dopo l’ennesimo atto di bullismo che Sara si ritrova a tornare a casa senza vestiti e in lacrime. Poi una visione. Le sue compagne sono lì, di fronte a lei, legate all’interno di uno strano furgone e ricoperte di sangue. Prima di andarsene, il misterioso uomo al volante (interpretato da Richard Holmes) le lascia un asciugamano per coprirsi. Sara è terrorizzata ma colpita. Quello è stato il primo gesto gentile ricevuto da qualcuno dopo tanto tempo.
Quella che sembra la solita storia di una ragazza bullizzata che si prende la sua rivincita in realtà è davvero molto di più. Durante la visione, lo spettatore si troverà a fare i conti con pensieri e sentimenti contrastanti poiché contrastanti sono le emozioni della protagonista. Sara odia il mondo e odia tutti, disperata e repressa, esattamente come il killer che incontra. Sono entrambe due figure lasciate ai margini della società ed è per questo che in qualche modo si comprendono. Però non sono uguali, cosa che il film ribadisce in continuazione.
Complimenti a Laura Galán, la quale interpreta un ruolo non facile, composto da profonde sfumature e in grado di trasmettere emozioni che corrono dall’ironia alla vergogna, dall’audacia alla tristezza. Nei suoi occhi si denota il terrore e allo stesso tempo l’attrazione, un’ambiguità molto umana e quindi difficilissima da mettere in scena. Merito anche della fotografia di Rita Noriega e dell’ottima regia della Pereda, chiara, senza filtri. Dietro la macchina da presa si limita a osservare estranea fatti e personaggi, senza appoggiare né condannare, semplicemente mostrando la crudeltà e il paradosso per quello che sono.
Esibisce senza mezzi termini la fisicità della protagonista, allo stesso modo i suoi sguardi, i comportamenti e le malignità gratuite a cui è sottoposta, come la famosissima scena della piscina, più vicina alla tortura che al bullismo, punto focale del cortometraggio. Un corpo scrigno e prigione di una ragazzina incapace di essere se stessa e dire ciò che pensa. Quando è a casa è come se desiderasse fuggire da quella situazione claustrofobica, mentre quando è in città è come se fosse in un costante stato di allerta e non vedesse l’ora di tornare a casa, al sicuro. Il tutto coadiuvato dallo squallore del contesto cittadino provinciale, composto di abitanti mentalmente ristretti, ignoranti, bigotti.
Tra gli attori, anche Carmen Machi, madre di Sara, già nota per aver lavorato con maestri del calibro di Pedro Almodóvar. Uno dei personaggi più interessanti, protagonista a parte, è senz’altro il misterioso rapitore, sebbene compaia poche volte e non parli praticamente mai. Una psicologia che non capiamo del tutto ma che gli conferisce per l’intera durata della pellicola un fascino e un senso di pericolo costanti. È il desiderio che muove la storia, un desiderio sfaccettato e complesso.
Chiamare Piggy un horror è dunque riduttivo, più un thriller psicologico geniale e grottesco, crudo e inquietante al punto giusto. Si discosta dai binari del genere per approdare a un discorso più ampio, dove il bullismo e il body shaming sono il nucleo portante della storia. Mette in scena uno dei ritratti psicologici più realistici e terribili di un’adolescente martoriata da se stessa e dal mondo circostante, empatizzando spesso con lei, anche quando sembra molto difficile farlo. Lo spettatore viene quindi posto di fronte a un dilemma morale non indifferente, a una riflessione che continua a rimbalzare tra giusto e sbagliato.
Per quanto non possiamo dire si tratti di un capolavoro, come esordio sembra molto promettente. Un film che sa prendere una piega decisamente non banale, dosando bene la tensione e la violenza (più quella psicologica che fisica, anche se quest’ultima, quando c’è, non è edulcorata), consigliato anche a chi non si sente troppo in sintonia con l’horror. Tranquilli, si tratta solo di un pretesto per parlare di altro, forse il vero orrore.