Oggi ci troviamo immersi in un mondo relegato ai confini dei libri che ci aiuta a capire meglio non soltanto quel che è stato e continua a essere il nostro passato – portato avanti da autori di fama internazionale che verranno ancora apprezzati per secoli – ma, anche, quello che potrebbe essere definito con l’accezione di passato prossimo, ossia quella generazione di poeti e scrittori di cui possiamo avere ancora una testimonianza diretta, o con i quali ci troviamo a confrontarci in vista di un evento o presentazione. Tra gli indimenticati e indimenticabili, uno dei più grandi autori del panorama italiano, dalla personalità poliedrica capace di inserirsi stabilmente in campo artistico, giornalistico e poetico, risponde al nome di Pier Paolo Pasolini.
Amato da molti e criticato da tanti, riuscì a prendere in mano le redini della società e del mondo in cui viveva, facendo di esso un capolavoro puramente realistico. Nelle sue opere, infatti, con una perfezione formale che tende spesso a eccellere, rese aspetti poco chiari e spesso anche brutali con una nitidezza tale da sorprendere il lettore contemporaneo, introducendolo nei luoghi descritti con occhio attento e preciso. Chi altro, d’altronde, se non Pasolini, viene ricordato a girare per le vie di Roma con un taccuino in mano per appuntare tutto ciò che lo incuriosiva?
Proprio in questi giorni, il rapporto con l’immagine e con la fotografia, di cui l’artista fu artefice, viene promosso dalla mostra, attualmente presente nella Capitale, che resterà allestita fino al 23 giugno al WEGIL di Trastevere, ritraente autori di fama contemporanea – quali Giorgio Caproni, Sandro Penna, Giuseppe Ungaretti, Natalia Ginzburg e soprattutto Pier Paolo Pasolini –, per le vie della città, durante cene, feste in casa e serate di presentazioni, fino a giungere al ricordo della morte del poeta.
L’esposizione, a cura di Giuseppe Garrera e Igor Patruno, è il racconto di un’intera stagione incantata tra gli anni Cinquanta e Sessanta nella città di Roma in cui questi artisti cercarono la loro ispirazione. L’Urbe, infatti, si era fatta un punto di incontro e di scambio, aprendo gli occhi sia al lettore che allo scrittore dinnanzi a una realtà del tutto diversa e fino a quel momento mai raccontata. Il concetto stesso di poesia, in questo modo, tese ad assumere una nuova forma ponendosi al di là dei confini della versificazione e rappresentando immagini pure e semplici così come proiettate da una cinepresa.
Dopo aver girato diverse zone d’Italia per ragioni prettamente familiari, Pasolini giunse nella Capitale negli anni Cinquanta, una città in cui tutto inizia ma non smette mai di finire e di cui egli rimase ammaliato, ritraendola sia nei suoi aspetti migliori, ma anche, e soprattutto, in quelli peggiori. Come si evince dai suoi scritti, nel corso della vita si ritrovò a frequentare universi sociali totalmente diversi mostrandosi all’interno delle varie periferie di Roma, quale Tor Pignattara, nelle vesti di una figura popolare, come testimoniano anche alcuni suoi amici più cari. Tra quelle strade, infatti, pare che l’intellettuale fosse chiamato, in maniera prettamente affettiva, Er Jack Palance in onore di un attore, cantante e pittore statunitense ricordato per i suoi film western. Una testimonianza da cui possiamo delineare un’immagine nuova di un artista per la gente tra la gente.
Ma Pier Paolo Pasolini fu anche il volto del proletariato che lo colpì e che si prodigò ad analizzare e a inserire nei suoi romanzi e racconti, proprio perché, come egli stesso affermò, la sua non era una letteratura rifinita ma voleva rappresentare la realtà così come si vede. Non a caso, la lingua, seppur spesso tendente al dialetto romanesco, evidenziava esattamente gli aspetti contrastanti e chiaramente veritieri di ciò che era – e che in parte continua a essere – la società contemporanea. Anche per questo ogni sua opera sembra essere fatta di assaggi, dai quali si potrà poi comprendere al meglio l’unicum, il piatto completo.
La sua poetica e la sperimentazione che lo contraddistinse furono, inoltre, molto vicine all’avanguardia. Negli ultimi anni di vita, infatti, Pasolini iniziò a concepire il proprio corpo come materiale artistico: si pose di fronte all’obiettivo aspettando di essere fotografato, magari anche mettendosi in posa come se dovesse essere ritratto a sua insaputa. Si trasformò quasi in un performer e materia fotografica, assumendo con superbia le vesti di un’opera d’arte vivente di alti livelli. Fu Baudelaire, scrittore dell’Ottocento, ad affermare e sostenere che il poeta deve diventare impresario di se stesso e Pasolini sembrò aver preso alla lettera queste parole non soltanto ponendo al centro il suo io, ma andando incontro a una vita che voleva vivere pienamente:
Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.
La scomparsa di Pasolini, però, non può essere ignorata: il suo corpo devastato – così come in parte danno a vedere anche le foto presenti alla mostra – venne ritrovato il 2 novembre del 1975, un omicidio immerso nel mistero al pari di alcune sue opere. Ancora oggi, infatti, la morte dello scrittore desta scalpore sia per quanto riguarda la fine violenta sia perché vige un profondo senso di incertezza da parte del lettore nel comprendere la portata e il talento di un autore ritenuto spesso dai critici anticonvenzionale, con scritti che sembrano quasi voler lasciare in sospeso. Come se lo scrittore non avesse smesso ancora di dire quel che aveva da dire, come se la sua esistenza, longeva nella memoria di chi ne ama l’opera, non fosse mai giunta al termine.