La morte è un mistero e la sepoltura è un segreto: con queste evocative parole si apre il romanzo del 1983 di Stephen King da cui è tratto il nuovo adattamento – dopo quello del 1989 della regista Mary Lambert – realizzato da Kevin Kölsch e Dennis Widmyer sulla base della sceneggiatura di Jeff Buhler e David Kajganich (responsabile quest’ultimo anche del nuovo Suspiria). Libro e film lavorano entrambi sull’enorme rimosso psicologico della società occidentale, la morte e, soprattutto, sulle conseguenze a cui si va incontro nel momento in cui si vuole negare con tutte le forze questo traumatico ma importante passaggio esistenziale.
La storia, in breve, narra di Louis Creed, giovane dottore che si trasferisce da Boston nella piccola cittadina di Ludlow nel Maine – regione scenario di buona parte della narrativa di King –, dove assumerà il ruolo di medico dell’ambulatorio universitario. Viene accompagnato dalla moglie Rachel e dai due figli, Ellie di 9 anni e Gage di 3. All’interno della proprietà della nuova casa, la famiglia scopre l’esistenza di un cimitero – Pet sematary appunto (scritto di proposito con un errore di grafia tipicamente infantile) – dove i bambini del luogo amano seppellire i propri animaletti domestici tramite dei rituali molto strani, durante i quali indossano inquietanti maschere. Aspetto, questo, assente nel libro e, va detto, brillantemente aggiunto dagli sceneggiatori per dare un tocco di ritualità pagana a queste esequie inconsuete.
Il limite estremo del cimitero degli animali è contrassegnato da una colossale barriera artificiale di rami e alberi caduti che lo separa il resto del mondo, vale a dire un antichissimo territorio sacro agli indiani Micmac che, come scopriremo, ha il malsano potere di riportare in vita chiunque vi sia sepolto. Inutile dire che il primo a finire in questo strano luogo sarà proprio il gattino di casa, Church, vera e propria icona del film che, dopo essere stato trovato morto, su suggerimento del vicino di Louis, Jud Crandall, verrà portato e sepolto nel terreno tabù per ritornare, diciamo in vita, non proprio con lo stesso dolce carattere che lo aveva caratterizzato in precedenza. Questo sarà solo l’inizio di un mare di guai. C’è ovviamente una conseguenza nel giocare con i defunti: coloro che risorgono non tornano esattamente come erano prima. Di più non si può dire.
La vicenda di Pet sematary dice qualcosa di molto importante sul nostro rapporto con la morte e sul modo in cui elaboriamo i lutti o, forse, sul modo in cui cerchiamo di evitare di farlo. A cominciare dall’edulcorazione dei naturali fenomeni luttuosi che gli adulti operano nei confronti dei figli, pur di tenerli al riparo dal solo concetto che un’esistenza debba finire. Fino ad arrivare a rimuovere, in maniera nefasta per la psiche, gli eventi luttuosi della propria vita. Cosa che fa il personaggio di Rachel che, da un lato, vorrebbe tenere la figlioletta lontana dalle verità della vita e, dall’altro, non riesce ad affrontare la morte neanche con suo marito. Questo perché traumatizzata da una perdita che le ha segnato l’infanzia lasciandole dentro degli inutili sensi di colpa. Lo stesso King ebbe delle difficoltà a pubblicare il romanzo proprio perché affrontava di petto il tema della perdita, in particolare la perdita più devastante che una persona possa immaginare nella vita, e lo faceva con grande onestà emotiva e intellettuale.
Il nuovo film riesce solo in parte a rendere tutto questo, soprattutto grazie all’interpretazione di un intenso Jason Clarke – volto ormai conosciuto per film come Apes revolution, Everest e First man – nel ruolo di Louis e del grandissimo John Lithgow – attore feticcio di De Palma in film come Blow out e Doppia personalità ma versatile interprete in decine di titoli dagli anni Settanta a oggi – nel ruolo del paterno Jud Crandall che diverrà un punto di riferimento per la famiglia e soprattutto per il medico. Da non dimenticare la piccola e bravissima Jeté Laurence nel ruolo di Ellie.
Un punto a favore del nuovo adattamento è il fatto che conserva un importante elemento mitologico presente nel libro – e non nel film del 1989 –, cioè il Wendigo, creatura del folklore dei nativi americani, dalle enormi dimensioni più o meno umanoidi, che infesta le foreste e dà la caccia agli uomini correndo con tale velocità da bruciarsi i piedi, almeno secondo la versione più popolare. Lo scrittore Algernon Blackwood dedicò a questa figura leggendaria un famoso e terrorizzante racconto nel 1910. Alla base dei fenomeni che accadono nel territorio sacro – e maledetto – dei Micmac ci sarebbe dunque il Wendigo, o meglio, come emerge dal film, il Wendigo potrebbe essere semplicemente il nome che gli indiani diedero a certe antichissime forze – archetipiche, aggiungeremmo noi – che infesterebbero alcuni luoghi del nostro pianeta.
La pellicola, saggiamente e coerentemente, non mostra mai la creatura ma, nel momento in cui Jud e Louis si addentrano nel terreno sacro per seppellire il gattino Church, lo spettatore entra con loro nel regno del Perturbante – Unheimlich, secondo la definizione di Freud –, un mondo di Alterità ed Estraneità assolute, caratteristiche efficacemente restituite dalla scena. In luogo di Perturbante si potrebbe anche usare la recente definizione del filosofo Mark Fisher (per chi fosse interessato, consiglio la lettura del bellissimo e recente saggio The weird and the eerie – Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, edito in Italia da Minimum fax), Unhomely, ovvero ciò che non è familiare, che è lontano dal nostro consueto mondo quotidiano. Il terreno alle spalle del Pet sematary è un vero e proprio luogo Esterno alla nostra realtà nel quale le leggi naturali sono andate in frantumi, in un senso non lontano dal Weird, Strano, e dallo Eerie, Inquietante, che caratterizzavano così efficacemente i racconti di Arthur Machen prima e di H. P. Lovecraft poi. In tali storie avveniva una maligna e peculiare sospensione o sconfitta di quelle immutabili leggi di Natura che costituiscono la nostra sola difesa contro gli assalti del caos e i demoni dello spazio insondabile, definizione fornita dallo stesso Lovecraft nel suo saggio L’orrore sovrannaturale nella letteratura. In quei racconti, così come nelle scene di Pet sematary ambientate nel territorio dei Micmac, le normali leggi della Natura vengono meno per far spazio a qualcosa di totalmente Alieno, nel senso etimologico della parola, proveniente da uno spazio Altro rispetto al nostro. Gli inquietanti gemiti non umani che ascoltiamo in quelle scene, ci riconducono a un’indefinibile atteggiamento di timoroso ascolto, come per il battito di nere ali o il raspare di forme ed entità estranee all’estremo confine dell’universo conosciuto. Caratteristiche che, secondo lo scrittore di Providence, osannato ovviamente dallo stesso King, un buon racconto di orrore sovrannaturale dovrebbe avere.
Si dice che le donne siano brave nell’avere segreti, e forse qualcuno ce l’hanno, ma qualsiasi donna che abbia un po’ d’esperienza della vita ti direbbe di non aver mai guardato realmente nel cuore di un uomo. Il cuore di un uomo è fatto di un terreno più duro, Louis… come lassù, nell’antico terreno di sepoltura dei Micmac. La roccia affiora prima. Un uomo ci coltiva quello che può… e ne ha cura. In queste poche ma dense battute che il personaggio di Jud Crandall rivolgeva al protagonista Louis Creed, si celava un altro dei principali fulcri emotivi del romanzo di Stephen King. Nel film rimane sì l’accenno al cuore dell’uomo che è come un terreno duro, ma non viene contestualizzato adeguatamente. Questo per dire che anche il Pet Sematary del 2019 risente purtroppo di quelle semplificazioni che spesso sono state la rovina delle trasposizioni dei romanzi del Re.
Intendiamoci, non che il nuovo adattamento sia pessimo, ma risente purtroppo di un’eccessiva fretta nell’arrivare al dunque, cosa che inevitabilmente sacrifica quell’approfondimento psicologico necessario per arrivare a un certo climax: questo è sempre stato uno dei problemi maggiori nel trasporre la prosa di King in immagini. I suoi romanzi sono infatti caratterizzati da una profonda esplorazione psicologica dell’animo umano, accompagnata sempre da una grande empatia e comprensione per le debolezze dei propri personaggi, nonché da un’originale rielaborazione dei generi horror, thriller, gotico e drammatico, sapientemente mescolati in una vera e propria mitologia che si nutre di luoghi e paesaggi, immaginari e non, di quel Maine così amato dallo scrittore. Trasporre tutto questo in film che non siano banali è molto difficile e infatti la storia del cinema degli ultimi 43 anni – il primo film tratto da King è Carrie del 1976 – è costellata di poche ottime trasposizioni e di molte delusioni. Ovviamente un buon adattamento di un libro non deve per forza riprodurre pedissequamente la trama del romanzo in questione ma l’importante è che ne restituisca il senso e le atmosfere, che sia fedele alle tematiche che il libro porta avanti sottotraccia. Cosa naturale e assolutamente comprensibile nel processo di adattamento da un linguaggio, la prosa scritta, a un altro, il racconto per immagini. I fan di King più avvezzi sanno che non possono aspettarsi la fotocopia del romanzo che hanno amato e che a volte, proprio un apparente tradimento della trama porta a dei risultati cinematografici interessanti o addirittura eccelsi (il caso di Shining su tutti ovviamente).
Questo nuovo Pet sematary, dunque, non è proprio una delusione perché ha saputo restituire in parte le atmosfere e le tematiche del testo scritto rielaborando il materiale del romanzo in modo mediamente efficace e introducendo anche qualche elemento originale – i rituali dei bambini per esempio –, nonché mantenendo la base mitologica presente nel romanzo. Però, come si è detto, risente di un’eccessiva fretta nel voler arrivare al climax finale, a scapito dei personaggi. Inoltre, a partire da un certo precipitare degli eventi, il film si prende delle libertà, sicuramente legittime, che, se da un lato portano a un finale ancor più beffardo di quello del libro, dall’altro ne enfatizzano gli aspetti più facilmente spettacolari. In tale crescendo si smarrisce il senso dell’arco narrativo di Louis e si procede per un accumulo di colpi di scena che non giovano alla coerenza della pellicola, ovviamente al di là della sua eventuale fedeltà al romanzo. Peccato, una buona occasione, con alcuni elementi molto riusciti e un deragliamento che penalizza non poco il risultato finale.