Obruni. Straniera. Una forestiera d’oltreoceano. È così che i ragazzini, nelle strade di Elmina, accolgono Saidiya Hartman. È appena arrivata in Africa, la terra dei suoi avi, lei che sa destreggiarsi tra le vie di Manhattan, indossa scarpe da passeggio tedesche fuori moda e tiene i capelli raccolti in due trecce alla francese. La gente del villaggio la riconosce subito, sa bene chi è, da dove viene e, forse, anche perché è qui. Dua ho mmire, sussurrano, un fungo che cresce sull’albero non ha terreno profondo. Ed è esattamente così che Saidiya si sente, senza radici. Per ritrovarle, ripercorrerà la tratta degli schiavi, quella che in troppi, secoli addietro, hanno percorso prima di lei.
Pubblicato per la prima volta nel 2007 e edito in Italia da Tamu Edizioni con traduzione di Valeria Gennari, Perdi la madre è un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi. Il volume si presenta a metà tra narrazione storica e rappresentazione autobiografica, una potente riflessione che interroga passato, memoria e identità, scandagliando ciò che è stato nel tentativo di spiegare ciò che è ancora.
Il viaggio inizia tra gli scaffali della biblioteca di Yale dove, studentessa, Saidiya Hartman si imbatte in un riferimento alla propria famiglia in un volume che raccoglie testimonianze di schiavi in Alabama. A casa, però, nessuno vuole parlare dell’argomento. I suoi genitori, suo fratello e molti degli africani che incontrerà lungo il cammino la inviteranno a guardare oltre, a non perdersi nei fantasmi di un passato che va lasciato alle spalle o, come noterà lei stessa, trasformato in un’attrazione turistica a mo’ di risarcimento danni. La sua risposta a quella che chiama non storia dello schiavo sarà il tentativo di riempire gli spazi vuoti e rappresentare le vite di coloro che sono ritenuti indegni di essere ricordati.
In Ghana, lì dove il viaggio prosegue, ben nove rotte conducevano i prigionieri dall’entroterra al mare aperto. Seguendo queste tracce, le orme di più di settecentomila prigionieri, Saidiya Hartman visita forti e magazzini, le città fortificate e le comunità saccheggiate. Alla fine del XV secolo, nella corsa all’oro e agli schiavi, portoghesi, olandesi, inglesi, francesi, danesi, svedesi e tedeschi (all’epoca brandeburghesi), costruirono circa cinquanta avamposti permanenti per assicurarsi il proprio spazio nel commercio africano. Ancora oggi, il Paese possiede più segrete, prigioni e galere di schiavi di tutta l’Africa Occidentale.
Nelle celle strette e buie, sepolte sottoterra, cavernose, anguste, con le sbarre, umide, cilindriche, spesso improvvisate, venivano rinchiusi i prigionieri prima di attraversare l’Atlantico, costretti al tentativo disperato di sopravvivere al puzzo e allo sporco dei loro bisogni, senza un giaciglio, deprivati di qualsiasi anelito vitale. Nelle segrete si ammazzavano gli uomini e nascevano gli schiavi. Ripercorrendo i loro passi, Saidiya Hartman si interroga sulle origini, sul senso di casa e appartenenza. Lei che è una senza-stato, un’aliena, nata e cresciuta nella “terra delle opportunità”, eppure eternamente straniera. Obruni.
La definizione più universale possibile di schiava è: una straniera. Strappata alla famiglia e alla comunità, esiliata dal suo paese, disonorata e violata, la schiava definisce la posizione dell’estranea. È lei la perpetua reietta, la migrante forzata, la forestiera, la vergogna della stirpe. Essendo sia figlia di schiavi che americana in Africa, anche Hartman lo è, un’estranea.
Saidiya sente su di sé il peso di un’etichetta vuota. Troppo nera per essere americana, troppo occidentale per essere africana. Nella confusione dei suoi tratti, dei costumi, dell’accento di una lingua che parla ma non dice, nessuna linea d’origine certa può essere tracciata. Il territorio della straniera, sostiene, è sempre un elusivo altrove. Ed è in quell’altrove che vanno cercate le cause dell’oggi. Di un mondo che ancora divide e classifica gli esseri umani in base al colore della pelle, al retaggio che si portano dietro, a ciò che rappresentano da sempre, da quando, cioè, la schiavitù ha istituito un metro di giudizio e valore che tuttora non abbiamo superato.
Se la schiavitù rimane una questione aperta nella vita politica dell’America nera – scrive Hartman (e del mondo, aggiungiamo noi) –, non è a causa di un’ossessione antiquaria per i giorni andati o per il peso di una memoria troppo duratura, ma perché le vite nere vengono ancora svalutate e messe a repentaglio da un calcolo razziale e da un’aritmetica politica consolidatisi secoli fa. È questa la vita postuma della schiavitù – opportunità manomesse, accesso limitato alla sanità e all’istruzione, morte prematura, carcere, povertà. Io pure sono eredità della schiavitù.
Saidiya rappresenta tutto ciò che la gente ha scelto di rifuggire, la catastrofe di un passato che si confonde nel presente, quello dell’autrice, ma anche il nostro, dei lettori che ancora barattano vite. Un tempo in cambio di stoffa indiana, perle veneziane, conchiglie di ciprea, armi e rum; oggi di oro nero, ancora armi, interessi geopolitici, altre forme di potere e schiavitù.
In Perdi la madre, passato e presente si incrociano, talvolta persino si mescolano. Negli insegnamenti di mamma Hartman, nella sua diffidenza verso la divisa, nell’invito a tenersi lontani dai guai perché di colore, è difficile non ritrovare il qui e ora. Nelle navi che attraversano l’Atlantico, è impossibile non riconoscere i barconi che bramano Lampedusa. Nell’Europa colonialista annega ancora l’Europa delle merci e mai dei diritti.
Sono i giorni della condanna di Derek Chauvin, degli otto minuti e quarantasei secondi in cui George Floyd non riesce a respirare, gli anni in cui Luca Traini spara perché vede nero, un giovane si accascia nelle campagne pugliesi dopo il raccolto, il Mediterraneo si fa cimitero e i calciatori non si inginocchiano a sostegno – persino di facciata – del Black Lives Matter. Dicono sia troppo politico. Sono i giorni in cui la razza stabilisce ancora una gerarchia della vita umana, determina quali individui sono sacrificabili e seleziona i corpi che possono essere trasformati in merci. La razza resta ancora una sentenza di morte.
In Ghana si dice che uno straniero è come l’acqua che scroscia sul terreno dopo un acquazzone: si asciuga presto senza lasciare traccia. Ed è così che è successo. È così che succede anche adesso. Il sogno che unisce Martin Luther King a Thomas Sankara non si è realizzato. Un’Africa per gli africani in patria e nel mondo nemmeno. Eppure Saidiya Hartman, che arriva scettica tra i fedeli, a metà tra il desiderio e la perdita che quell’etichetta costituisce, il suo essere Obruni, riesce a scorgere qualcosa, non nelle segrete, nei sotterranei che scava e attraversa, ma a Gwolu, la sua ultima tappa sulla rotta degli schiavi.
Nella cittadina, l’autrice spera di trovare il cartello che indichi la strada verso quelli che si trovano sulla sponda opposta dell’Atlantico, invece, scopre una storia diversa: tutti parlano di lotta alla schiavitù, ma nessuno parla di schiavi. È una narrazione di vittoria, un racconto di resistenza e rivalsa. Nessun canto di dolore o lamento, ma canti di guerra e inni militari.
Il passato, per chi vive a Gwolu, è motivo di speranza. Ed è a esso che Hartman si attacca, comincia a credere. In esso scopre l’origine, l’appartenenza, il legame con qualsiasi posto del globo in cui la gente lotta per vivere e spera di prosperare. È il sogno del fuggitivo che oltrepassa i confini del continente, il sogno del mondo come casa.
Forse era questo che il sacerdote aveva voluto suggerire con le parole «popolo africano»: esse non si riferivano al passato o a una collettività esistente ma a una collettività potenziale sprigionata dalle lotte per l’autonomia e la democrazia.
Ciò che legava me alla gente di Gwolu non era ciò che avevamo sofferto o sopportato ma le aspirazioni che alimentavano la fuga e il desiderio di libertà. Erano questi sogni condivisi quelli in grado di aprire una strada comune verso un futuro in cui i desideri e le speranze deluse di prigionieri, schiavi e fuggitivi potessero essere realizzati. Se un’identità africana doveva avere un senso, almeno per me, allora ciò che significava o che doveva significare poteva essere elaborato solo nella lotta contro la schiavitù.
[…] Non era il sogno della Casa Bianca, fosse pure stata a Harlem, ma di un territorio libero. Era il sogno di un’autonomia più che di una nazione. Era il sogno di un altrove, con tutte le sue promesse e i suoi pericoli, dove i senza-stato potessero, finalmente, prosperare.