Quando gli impegni affollano le nostre vite, circondando e riempiendo ogni attimo e ogni prospettiva, appare quasi spontaneo dare alle incombenze quotidiane una connotazione spaziale. Ci si sente invasi, oltre che stanchi. Le scadenze e le preoccupazioni sembrano rimpicciolire il nostro sguardo, ridimensionare il nostro raggio d’azione. Per tal motivo, sono in molti a scegliere di spezzare queste prigioni giornaliere immergendosi in luoghi ampi, ariosi, dalle dimensioni imponenti. L’illusione – o, perché no, la realtà – è quella di restituire alla propria esistenza delle proporzioni nuove, riproponendo una linea d’orizzonte differente.
Occorre perdersi, spingersi all’interno di immense geografie, per ritrovare quella serenità, quel meraviglioso senso di possibilità e di incertezza che la quotidianità seppellisce sotto tonnellate di responsabilità e frammentazioni del tempo. Passare, insomma, dall’essere sommersi all’essere immersi.
Uno dei luoghi che ha meglio rappresentato questa rivoluzione spaziale, nell’esperienza personale di chi scrive, è stato il Parco della Reggia di Caserta. Non è un caso, difatti, che il dispiegarsi verticalmente del posto produca negli occhi degli osservatori l’impressione di non poter mai prevedere la reale profondità del percorso. Ciò che appare vicino, in realtà, dovrà essere ricercato con più ardore. Perderà d’importanza la strada maestra, acquisiranno valore le tante deviazioni e i passaggi ombrati ai quali lo sguardo non può accedere senza che venga sospinto dalla curiosità.
L’Acquedotto Carolino, opera dell’architetto Luigi Vanvitelli, domina e divide l’apparente linearità del cammino. Una volta giunti in cima, genera l’effetto visivo di due diagonali che convergono verso la porta d’ingresso della Reggia. Si è soggiogati dal Sublime.
Il viaggio di scoperta continua con il celebre Giardino Inglese, fortemente desiderato dalla regina Maria Carolina d’Austria, moglie del re Ferdinando IV, e nato dalla perizia del giardiniere inglese John Andrew Graefer. L’informalità spiazzante delle composizioni confonde e attrae i visitatori, convinti di essere entrati in un luogo al di là del tempo, tra le macerie di mondi perduti e le suggestioni romantiche, tipiche del gusto ottocentesco. Nel boschetto, denominato anche il Labirinto, Vanvitelli ha, inoltre, creato due insule delimitate da uno stagno, ponendo sulla più grande un tempietto in rovina e delle colonne provenienti dagli scavi pompeiani.
Questa stessa finzione temporale è presente all’interno del Criptoportico, un ninfeo circolare fittizio in pietra di tufo, adornato da undici statue, molte delle quali deportate da Pompei o dalla Collezione Farnese. Il pavimento è stato progettato volutamente sconnesso, così come le crepe e il soffitto cadente. Sembra di poter vivere all’interno delle ceneri di epoche perdute, avvolti dall’intreccio osmotico di elementi naturali e artificiali. Profondamente poetico e struggente è l’inganno di questi spazi incompiuti, nati per appagare le voluttà nobiliari e giunti a noi come realizzazione di un desiderio remoto.
All’esterno del portico, si può scorgere una meravigliosa Venere, riversa nelle acque. La statua, opera di Tommaso Solari, rimanda a un gusto antico, creando suggestioni che oltrapassano il presente e che tendono verso un passato indefinito. La natura è una delle componenti che si intersecano perfettamente nella complessa opera finale, dove il Tempo e lo Spazio, l’Artificio e l’Arboreo, la Vita e l’Eterno, si mescolano in una melodia unica.
Vien da chiedersi, a questo punto del cammino, se non sia il caso di tornare indietro. Il passo è più lento, ma deciso. Le angosce, adesso, paiono lontane. Magari si è fatta chiarezza su alcune necessità, magari no. Il percorso ha lasciato una traccia, sebbene in questi ultimi attimi non sia ancora definita. Ancora non sappiamo, difatti, cosa sia cambiato in noi, tuttavia iniziamo a pensarci. È tempo di tornare a casa.
Non apparirà tracotante, allora, provare a rinnegare le celebri parole di Marcel Proust, quando riflette sul fatto che il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi. Probabilmente, a volte è necessario cercare anche dei nuovi spazi, per cambiare il proprio modo di guardare l’esistenza, il mondo e la vita.