Giovedì 27 maggio, su Rete 4, ospite della trasmissione Dritto e Rovescio diretta da Paolo Del Debbio, ho avuto modo di dire due parole sul blocco navale proposto da Fratelli d’Italia. Di fronte a Elisabetta Gardini, che ripeteva la loro proposta come fosse un mantra, sono sbottato con un è una cagata pazzesca. Il discorso si è concluso lì, ma una battuta non basta, occorre argomentare. Per questo, provo qui a spiegare perché le parole dell’esimio Paolo Villaggio ben riassumono la fallacia di una simile soluzione.
Praticare un blocco navale significa mettere in campo un atto di guerra contro un altro Paese. Quindi, a meno che l’Italia non voglia dichiarar guerra alla Libia – di nuovo? – o riesca a ottenere una risoluzione ONU che paventi un simile intervento, stiamo parlando di una mossa fuori dalle cose. In alternativa, sostiene Giorgia Meloni, si dovrebbe trovare un accordo con il Paese nordafricano, di modo che il blocco navale possa essere portato avanti in maniera consensuale e, magari, collaborativa. Dunque, l’idea di FdI è di proporre a quelle stesse autorità libiche – Guardia Costiera in primis – responsabili del traffico di esseri umani nel Mediterraneo, dei lager sulla terraferma, del business sulla pelle dei migranti, di cooperare al blocco navale. Se non li puoi sconfiggere, unisciti a loro: eccola la mirabolante strategia di Fratelli d’Italia.
Ipotizziamo, però, che questi ostacoli vengano effettivamente superati e proviamo a immaginare un vero e proprio blocco navale. C’è chi sostiene che andrebbe applicato nelle immediate prossimità delle coste libiche, così da impedire finanche la partenza di barche, barchini e barconi. In tal caso, però, saremmo vicini a un vero e proprio intervento di terra. Per capirci: vicinissimi a un’invasione del territorio di un Paese sovrano, la Libia.
L’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, capo di stato maggiore della Marina al tempo dell’operazione Mare Nostrum, sostiene che tale ipotesi configuri un’operazione irrealistica sotto il profilo politico, quantomeno sotto l’egida nazionale. Rincara la dose l’ammiraglio Fabio Caffio, per il quale il blocco navale è irrealizzabile e illegale. Illegale ben due volte: perché i respingimenti in mare violano il diritto dei profughi di chiedere asilo e perché questi uomini e queste donne verrebbero rispediti in un Paese, la Libia, che non è porto sicuro. Insomma, dalla stessa Marina si dice che la proposta di Fratelli d’Italia è ridicola e propagandistica.
E se, invece, ipotizzassimo di praticare il blocco navale in mare aperto? Proviamo a figurarci la scena. Centinaia di uomini e donne si imbarcano su un pezzo di costa libico, la carretta della speranza naviga nel Mediterraneo e, prima o poi, incontra lungo la propria rotta una nave militare italiana. Dall’imbarcazione di guerra viene intimato l’alt. A questo punto ci sono due possibilità: i migranti accettano lo stop e vengono salvati dalla nave militare italiana. Non possono essere “respinti” in Libia per i suddetti motivi, dunque vengono portati in Italia. Oppure, ipotesi numero due, se ne infischiano dell’alt e proseguono, provando a raggiungere le nostre coste. Cosa farebbero a questo punto i militari? Speronerebbero l’imbarcazione? Sparerebbero sui migranti? «Non è che puoi lasciarle affondare girandoti dall’altra parte, nessuna Marina Militare al mondo, nel rispetto del diritto internazionale e dei principi umanitari, lo accetterebbe», così il Generale Claudio Graziano, presidente del Comitato di Difesa dell’Unione Europea.
In realtà, una volta, l’Italia ha già praticato il blocco navale. Correva l’anno 1997, al governo c’era il centrosinistra guidato da Romano Prodi e dall’Albania erano in tanti a cercare un futuro migliore scappando verso il Bel Paese. Il 28 marzo, la Kater I Rades, partita da Valona, fu affondata dalla nave militare italiana Sibilla, che cercava di impedirne il passaggio nell’Adriatico. Il bilancio fu di 108 albanesi morti. Vogliamo forse che si ripeta quella storia?
C’è un’ulteriore ragione per cui il blocco navale si configura come una cagata pazzesca. Ci sarebbe bisogno, infatti, di un notevole dispiegamento di mezzi militari. Non basta mezza fregata, servono navi, supervisione aerea e altri strumenti bellici. Uno sforzo imponente, insomma. Uno sforzo che avrebbe anche un costo enorme. Vogliamo davvero spendere questi soldi – che ci viene continuamente ripetuto esser pochi, pochissimi – per respingere i migranti? Non sarebbe forse meglio usarli per un sistema di accoglienza diffuso a terra e per migliorare le vite della nostra gente, italiana o straniera poco importa?
Sono convinto che tutte queste ragioni siano ben note a Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia. Sorge allora spontanea la domanda: perché proporre comunque il blocco navale? Perché è mera propaganda, uno slogan facile che serve a posizionarsi nel dibattito italiano come quelli ostili all’immigrazione, all’invasione, alla sostituzione etnica, e così via. L’obiettivo è far sembrare che viviamo in una situazione di guerra che richiede lo spiegamento di mezzi militari per bloccare un pericoloso nemico: migliaia di uomini e donne che fuggono da condizioni difficilissime, se non disperate.
Per questo va rifiutato in toto il frame narrativo delle destre. Ci vorrebbero imporre la storiella della guerra culturale, costringendoci a posizionarci sull’essere pro o contro i migranti e a determinare su questa base il nostro comportamento politico. Noi, invece, dobbiamo rifiutarci di farci assoldare e ricondurre tutto agli interessi materiali e non della nostra gente – a prescindere dalla nazionalità –, allo sfruttamento neocoloniale da parte dei Paesi europei di gran parte del resto del mondo, e così discorrendo.
Infine, ci sono proposte concrete da poter applicare nel brevissimo periodo: corridoi umanitari, per costruire rotte sicure che permettano di evitare che il Mediterraneo si trasformi in un vero e proprio cimitero, oltre che per avere contezza di chi si muove; permessi di soggiorno, per consentire a tanti uomini e tante donne di potersi spostare con maggiore facilità, di essere meno ricattabili, di essere meno soggetti a cadere nelle reti della borghesia criminale e non che di clandestini si ciba per accrescere il proprio business, rivestito o meno che sia da una patina di legalità.