La scorsa settimana il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge per la riforma costituzionale che riguarda l’introduzione del cosiddetto premierato e che, in generale, ha il fine di rafforzare i poteri del Presidente del Consiglio e di permettere la sua elezione diretta.
All’interno della stessa riforma, composta da cinque articoli in tutto, si prevede anche l’eliminazione dei senatori a vita, fatti salvi coloro che lo sono attualmente e che continueranno a esserlo, e la nomina dell’ex Presidente della Repubblica.
Al di là della previsione sui senatori a vita – a cui da tempo i partiti di destra si oppongono, considerato che soprattutto dopo la riduzione del numero dei parlamentari rischiano di avere un peso rilevante nelle decisioni – è proprio alla figura del Capo dello Stato che questa riforma rischia di infliggere un duro colpo.
Se infatti il Premier venisse eletto direttamente dai cittadini, il Presidente della Repubblica dovrebbe solo conferirgli l’incarico, essendo così privato del suo fondamentale ruolo di garante ed equilibratore delle diverse istanze fuoriuscite dalle elezioni. Continuerebbe invece a nominare i Ministri su indicazione del Premier e perderebbe inoltre la possibilità di sciogliere una sola delle due Camere, potere mai esercitato finora da nessun Presidente.
Il rischio è che tale elemento della riforma venga oscurato dalla più pubblicizzata novità dell’elezione diretta del Premier e che così se ne trascurino le rilevanti conseguenze. Non a caso, Giorgia Meloni ha parlato di una riforma che non tocca i poteri del Capo dello Stato, mentendo. Ma non ha mancato di precisare che il suo vero obiettivo sarebbe stata proprio l’elezione diretta di quest’ultimo, a cui non ha voluto spingersi per salvaguardare il ruolo di garanzia del Quirinale che è molto apprezzato dagli italiani.
Eppure, non ci sembra affatto che venga salvaguardato, né all’inizio della legislatura né in fase di crisi: nel caso in cui il Presidente del Consiglio eletto non ottenga la fiducia delle Camere, infatti, il Capo dello Stato perderebbe il suo potere di individuare una figura alternativa, così le Camere verrebbero sciolte e si tornerebbe a votare. Se la fiducia venisse invece meno nel corso della legislatura, l’unica possibilità attribuita al Capo dello Stato sarebbe quella di conferire l’incarico di formare un nuovo governo esclusivamente al Presidente dimissionario o a un altro parlamentare che però sia collegato al primo.
Questa è quella che è stata definita dai più norma “anti-ribaltone” e che sembra essere la disposizione che ha creato maggiori dissidi anche tra i componenti della stessa maggioranza. Ciò che è certo è che una simile novità sembrerebbe assurda anche a un osservatore meno attento: vincolare qualsiasi Parlamentare a un mandato viola palesemente l’articolo 67 della Costituzione.
Ma le inesattezze giuridiche e gli entusiasmi superficiali sono ottimi compagni e così la notizia viene data con un comunicato che tenta malamente di celare quali sono i veri fini della manovra. Eppure i festeggiamenti iniziali sono già stati abbandonati se si pensa che Giorgia Meloni ha subito precisato che qualunque sarà l’esito di questa riforma, essa non avrà alcuna conseguenza sulla sua carica e lei rimarrà.
È scaltra Meloni e, memore della brutta esperienza di Renzi, non ha dimenticato di presentarsi come salvatrice e protettrice del popolo. Lei rimarrà perché questa riforma non le serve mica, serve agli italiani, e così, consapevole delle difficoltà che il disegno di legge incontrerà nell’iter di approvazione, già anticipa che si arriverà a un referendum.
La Costituzione è infatti caratterizzata dalla cosiddetta rigidità, ossia non può essere modificata né integrata né abrogata in alcuna sua parte senza una procedura aggravata, vale a dire più complessa di quella ordinaria.
L’articolo 138, in particolare, prevede per la legge di revisione costituzionale un’approvazione con due deliberazioni successive, a distanza di tre mesi, da parte di ciascuna Camera, a maggioranza assoluta, quindi calcolata sul totale dei parlamentari e non dei votanti. Solo se la legge è approvata dai due terzi dei componenti delle Camere, ipotesi assai remota in questo caso, non si dà luogo al successivo referendum popolare su richiesta di un quinto dei membri della Camera, cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. Solo con l’approvazione della maggioranza dei voti validi la legge viene infine promulgata.
Lo scopo di una Costituzione rigida è innanzitutto quello di preservare i valori fondanti scelti dai padri costituenti e soprattutto evitare che quelli che sono i principi cardine del nostro ordinamento possano essere sconvolti con una procedura che può risultare agevole come quella legislativa ordinaria.
L’elezione diretta del Presidente del Consiglio, contestuale alle votazioni con cui vengono scelti i parlamentari (lo stesso Presidente è necessariamente un parlamentare) avrebbe chiaramente fortissime ripercussioni sull’attuale legge elettorale: il decreto approvato dal governo, infatti, dispone che l’elezione del Premier comporti automaticamente il 55% dei seggi in Parlamento. Si dovrebbe quindi superare il Rosatellum – e sappiamo quanto sia stato difficile in questi anni proporre modifiche al sistema elettorale – e prevedere un premio di maggioranza, ipotesi verso cui in più occasioni si è mostrata contraria la Corte Costituzionale.
Ciò pone in ogni caso una serie di questioni, a cominciare dalla soglia cui collegare il premio, lo svolgimento di un eventuale ballottaggio, la modalità di scelta dei parlamentari, in particolare a livello circoscrizionale.
I rischi collegati a una simile riforma sarebbero molteplici, a cominciare dall’attacco alla separazione tra i poteri: la commistione tra potere politico-esecutivo e quello legislativo permetterebbe a una percentuale del Paese di accentrare presso di sé tutte le decisioni e i poteri, oscurando ancor di più le minoranze, già bistrattate, che non potrebbero essere tutelate neppure dal ruolo di garante del Capo dello Stato, di fatto svuotato.
La riforma costituzionale è attualmente lontana dall’approvazione, ma bisogna tenere ben presenti quali sarebbero le eventuali conseguenze che si prospettano, soprattutto nel caso in cui fossimo chiamati a esprimerci con un referendum, e che non sono altro che l’ennesima manifestazione di una volontà del governo di accentrare il potere nelle proprie mani e minare la democrazia.