Settecento anni sono tanti. Il mondo in cui viviamo conserva poche tracce di quello in cui è vissuto Dante, innanzitutto sul piano materiale. Certo, Firenze è ancora lì, e con essa Roma, Venezia, Vercelli, Fano, Treviso e la Sicilia, Brindisi e Parigi… Ma i nomi ingannano. La Firenze in cui ha vissuto Dante (limitiamoci a questo esempio) sarebbe irriconoscibile per un visitatore di oggi: senza la cupola di Brunelleschi, le sculture di Michelangelo, i quadri di Botticelli, gli affreschi di Masaccio… E così tutto il resto. Per non parlare delle rivoluzioni tecnologiche che ci separano dal Sommo Poeta: la stampa, la macchina a vapore, l’elettricità, l’informatica… Stiamo parlando di due pianeti differenti.
Naturalmente non è cambiato solo il mondo materiale: è cambiato soprattutto il mondo delle idee e dei concetti. Si spera che siano in pochi, nel 2021, a considerare ferite ancora aperte le lotte tra guelfi e ghibellini. Concetti come democrazia, esperimento scientifico, inconscio, sono del tutto ignoti a Dante: non esistono neppure le parole per indicarli. Perfino il catechismo della Chiesa cattolica, a dispetto dell’apparente inamovibilità dei dogmi, è cambiato, e da qualche anno ha rinunciato (limitiamoci anche in questo caso a un solo esempio) a giustificare un Dio onnipotente e buono che condanna i bambini non battezzati nel Limbo.
Ebbene, la Commedia è stracolma di riferimenti a questo mondo che non esiste più. Eventi e personaggi che già pochi anni dopo la morte del poeta avevano la tendenza a cancellarsi dalla memoria dei lettori e necessitavano quindi di note esplicative. Riferimenti filosofici e teologici oggi conosciuti da una ristrettissima élite di specialisti eruditi: Dionigi l’Areopagita, Sigieri di Brabante, Bernardo di Chiaravalle non compaiono da tempo nelle classifiche dei più venduti. Perché, dunque, il capolavoro di Dante non si è ridotto a un oggetto di studio per pochi, un argomento aulico, ben custodito nei musei della letteratura accanto al Roman de la Rose e alle canzoni di Guittone d’Arezzo? Come si spiega che Dante abbia ispirato i più grandi scrittori dell’ultimo secolo, da Joyce a Pasolini, e viva nel nostro immaginario quotidiano grazie a fumetti, blockbuster, videogiochi?
La Commedia, come è noto, racconta un viaggio nell’aldilà. Dante non è stato il primo né a fare del viaggio la metafora della vita umana, com’è ovvio, né a raccontare l’Inferno e il Paradiso (il Purgatorio era invece una novità: la Chiesa ne aveva riconosciuto ufficialmente l’esistenza solo nel 1274, quando Dante era un ragazzino). Ma quello che distingue il racconto dantesco da tutti gli altri è l’importanza che il poeta attribuisce agli incontri che scandiscono il suo cammino. Dante non solo viaggia, come tutti, ma dialoga – con le sue guide Virgilio e Beatrice, e soprattutto con le anime che incontra. Di fronte a Francesca, Farinata, Brunetto Latini, Pier delle Vigne, Ulisse, Ugolino, non si limita a giudicare, ma vuole innanzitutto ascoltare, capire.
Francesca è dannata per il suo amore peccaminoso, ma Dante le fa esprimere la sua pur sbagliata visione del mondo (Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende…); Brunetto Latini è colpevole di un peccato lercio, ma Dante lo ascolta con atteggiamento addirittura reverente; Ulisse ha fatto cattivo uso della sua intelligenza, ma il lettore è invitato ad ammirare la sua concezione dell’esistenza (Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza), prima che a riconoscerne i limiti. In questa apertura, o “polifonicità”, mi sembra che stia il primo fondamentale motivo di modernità del poema dantesco.
I poeti sono gente strana, che parla coi morti. Non è necessario risalire a tempi antichi e superstiziosi: la poesia forse più perfetta di Leopardi è un dialogo con una ragazzetta morta da molti anni; Montale ha dedicato alla moglie ormai assente (ma più presente di prima) i versi più belli della sua vecchiaia; Caproni ha fatto rivivere la madre Anna Picchi nella sua raccolta più straziata, dal titolo dantesco Il seme del piangere; Cucchi intesse da decenni un colloquio “a distanza” col padre Glenn… Quando il tumulto dell’esistenza si placa possiamo tentare di riconoscere, o di immaginare, un filo, un disegno, un senso.
È questo il compito che Dante attribuisce alla poesia. La polemica contro la letteratura di intrattenimento della sua epoca (i romanzi cavallereschi che portano Paolo e Francesca alla perdizione) e il ripudio delle buffonerie giovanili (la tenzone con Forese Donati) si basano sull’idea che la poesia debba essere ricerca della verità, tensione etica e filosofica. Dante ha capito che scrivere è sempre un atto politico: possiamo farlo per divertire, cioè per distrarre il lettore, oppure per trovare una risposta alle Grandi Domande della vita e della storia. In questa riflessione sulla funzione della poesia e della cultura in generale mi sembra che stia un secondo fondamentale motivo di modernità del suo lavoro.
La Commedia si basa su un progetto ricco di elementi numerologici e di simmetrie interne, esplicite e nascoste. Sono informazioni presenti in tutte le introduzioni al poema: trentatré canti per ciascuna cantica, più uno di introduzione generale; ogni cantica si conclude con la parola stelle; ogni regno è diviso in dieci zone (l’antinferno più i nove cerchi nel primo; la spiaggia, l’antipurgatorio, le sette cornici e il paradiso terrestre nel secondo; i nove cieli più l’Empireo nel terzo); e così via.
Dante colloca la sua narrazione all’interno di uno schema solidissimo, che deve rispecchiare l’unità misteriosa e perfetta della creazione divina. Ma all’interno di questa “gabbia”, quanta ricchezza di variazioni e di “eccezioni”! L’ordine dell’arte, come quello della creazione, non è fredda geometria, ma un’armonia viva, sempre cangiante, sempre aperta a sorprese, particolarità, ripensamenti. Limitiamoci all’Inferno: un cerchio è diverso da tutti gli altri perché le anime non patiscono pene corporali; un altro è diviso in tre parti, un altro in dieci, un altro ancora in quattro…
Anche il ritmo della narrazione varia continuamente: a volte il canto contiene due o tre episodi, a volte un episodio richiede due o tre canti; Virgilio si abbandona a frequenti digressioni (sulla Fortuna nel canto VII, sul Veglio di Creta nel canto XIV, sulle origini di Mantova nel canto XX); Dante stesso interrompe il racconto per lanciarsi nelle famose invettive. In questa continua compresenza di esprit de géométrie ed esprit de finesse mi sembra che stia il quarto fondamentale motivo di modernità della Commedia.
A cura di Alberto Cristofori (Albe Edizioni)