Autoritarie, dure, serie. Vestiti sobri, simili ai completi da uomo, ma con un tocco di femminilità: la gonna al posto dei pantaloni, gli orecchini o le scarpe con i tacchi. Talvolta, articoli maschili accanto a parole declinabili al femminile. Lanciano un messaggio chiaro: siamo donne, e tali restiamo, ma per accedere al potere dobbiamo assomigliare agli uomini, perché il potere è virile, è macho, è maschio. È ciò che si deduce dall’osservazione delle poche leader femminili del mondo occidentale, che dichiarano tutte la stessa cosa: ad appropriarsi dei posti che contano sono solo le donne di destra.
A parte poche guide dei Paesi del Nord Europa, che in quanto a diritti civili e parità di genere hanno già chiarito di essere anni luce avanti al resto del continente, le – poche – donne che negli ultimi cinquant’anni hanno avuto accesso al potere sono appartenute tutte ai movimenti più conservatori. Da Thatcher a Lagarde, da Merkel a Le Pen, da Trus a Von Der Leyen fino ad arrivare al primo Presidente del Consiglio donna italiano – necessario specificarlo data la confusione riguardo articoli e pronomi – tutte le donne europee che hanno ricoperto ruoli politici importanti provengono dalla destra. Chi più moderata, chi più conservatrice, infatti, la matrice del loro orientamento politico è sempre la stessa. Dalla sinistra, invece, nulla o quasi. Una contraddizione che trova una spiegazione proprio nel sistema, che resta, inevitabilmente, patriarcale.
Partendo dal presupposto che la parità di genere così come i diritti civili sono questioni che, in teoria, dovrebbero essere apartitiche e perseguite da tutti gli orientamenti politici, essi vengono comunemente identificati come temi caratteristici della sinistra. Eppure, dalla sinistra non arrivano donne leader, mentre dalla destra, seppur poche, sì. La spiegazione dietro questo fenomeno non si trova, però, in una presunta avanguardia dei più conservatori, che restano fedeli alle loro antidiluviane ideologie patriarcali, né nel fallimento nella sinistra, portatrice apparente di valori femministi e paritari. È nel fatto che la sinistra, in realtà, le donne in posizioni apicali proprio non le vuole.
Il sistema di accesso al potere che tutt’oggi sopravvive ha le stesse connotazioni del sistema patriarcale: il potere è prevaricazione, è in qualche modo violenza, è successo nel senso arcaico del termine, quello che vede il trionfo nella sconfitta altrui. L’accesso alla leadership politica, e dunque al potere, passa infatti inevitabilmente attraverso una retorica del successo fatta di aggressività e prepotenza, tipica connotazione della virilità maschia più propriamente detta poiché l’affermazione non può prescindere dall’oppressione altrui. Dunque, se il potere è connotato in modo stereotipicamente virile, perché è proprio la destra, ufficiale portatrice di quegli stessi ideali, ad avere leader donne? E perché la sinistra si dimostra inevitabilmente fallimentare?
Le donne di destra che hanno raggiunto ruoli apicali sono, appunto, di destra. Sono donne che sposano gli ideali su cui si basa il sistema, e che dunque non lo sfidano. Non lottano per la parità di genere né per i diritti civili, non sono a favore delle minoranze e anzi assumono in qualche modo connotazioni maschili, dimostrando che sono solo quelle caratteristiche a garantire il successo. La loro sporadica presenza sulla scena politica convalida, insomma, il sistema, continua a validarlo, dimostrando che l’unica struttura che funziona è quella già vigente.
Al contrario, le donne di sinistra – sinistra vera, si intende – il sistema lo sfidano. Sono portatrici di ideali che chi possiede privilegi non vuole distruggere. Neanche la sinistra stessa. Che i partiti e in generale i politici che si definiscono di sinistra lo siano ben poco è un problema tipico delle società occidentali contemporanee, Italia in primis. Le istanze in favore delle minoranze, la parità di genere, i diritti civili, minacciano gli equilibri, rappresentano un pericolo per lo stesso sistema che ha dato il potere a chi ce l’ha già – gli uomini, qualunque sia la fazione politica – che, allargandone le maglie per lasciar entrare qualcun altro, lo perderebbe.
Non è in effetti raro che provengano proprio dalla cosiddetta sinistra iniziative e programmi che di progressista non hanno granché. Non accade, ovviamente, solo con gli argomenti relativi alla questione di genere: la sinistra italiana è stata fin troppo spesso promotrice di leggi, accordi e decisioni che tradiscono gli ideali che promette di perseguire. Ma del suo non fallimento, bensì tradimento, la parità di genere è forse la più rappresentativa poiché svilita attraverso misure apparentemente pensate per ridurre le differenze ma che hanno la stessa matrice di chi certe differenze le sostiene apertamente. Dal modo di intendere il ruolo della genitorialità ai sussidi pensati esclusivamente per le donne che seguono le orme del sistema, dalla relegazione all’inferiorità economica all’inefficacia e talvolta inesistenza di azioni per promuovere cambiamenti culturali. La mancanza di una leader non ne è che la più estrema rappresentazione.
È la stessa sinistra che non mette in discussione il sistema. È la stessa sinistra che conferma l’imprescindibilità del ruolo materno, offrendo sussidi alla maternità invece di politiche rivolte alla parità tra i genitori. È la stessa sinistra che offre ricompense a chi assume le donne, invece di eliminare gli ostacoli pratici e culturali dietro la disoccupazione femminile e il gender pay gap. È la stessa sinistra che si dice femminista e poi del femminismo non conosce così tanto. Non bastano le quote rosa e parlare di pronomi per definirsi tali. Serve mettere in discussione il sistema, lo stesso che valida il potere di chi ce l’ha già, dei privilegiati. Serve eliminarlo, il privilegio, anche e soprattutto lì dove si sostiene di riconoscerlo.
Più volte, nel corso delle analisi che hanno visto Giorgia Meloni diventare la prima donna italiana a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio, ci siamo detti che non aver avuto alcuna donna leader proveniente dai ranghi della sinistra fosse la più emblematica rappresentazione del suo fallimento. Ma, a pensarci bene, non è di fallimento che si tratta, perché per fallire è necessaria una precisa volontà di cambiare le cose. E non mi pare che siano questi gli obiettivi perseguiti.