Mi ha molto scosso la notizia della scomparsa di Gianni Celati, morto nella notte tra il 2 e il 3 gennaio di quest’anno. Ne scrivo ora con commozione e rimpianto per non averlo potuto frequentare più spesso, ma Gianni abitava da più di trent’anni a Brighton (Gran Bretagna) con la moglie Gilian Haley, pur alternando periodi di soggiorno nella sua amata Emilia, regione che ha descritto con intelligenza, ironia e perfino gusto del paradosso in alcuni godibilissimi libri, spesso accompagnandosi, nelle proprie esplorazioni, con Luigi Ghirri, artista-fotografo che come lui sapeva cogliere le misteriose e più intime rigature della pianura emiliana e dei suoi silenziosi abitanti.
In questo, ambedue possono considerarsi un po’ i successori di Antonio Delfini, narratore e poeta ben conosciuto, studiato da Celati che ne aveva finanche curato un libro, bello quanto editorialmente sfortunatissimo: Autore ignoto presenta. Racconti scelti e introdotti da Gianni Celati (Einaudi, 2008). Un narratore, Delfini a me quanto mai caro. Anzi, in un certo qual modo, devo proprio alla mia ammirazione verso la sua narrativa se trent’anni fa scrissi alcuni racconti, uno dei quali (intitolato Momo) osai inviare allo stesso Celati.
Avevo da poco letto Quattro novelle sulle apparenze (Feltrinelli, 1987), libro di intensissima suggestione che, insieme con Narratori delle pianure (ivi, 1985 e 1988) e Verso la foce (ivi, 1988, 1992), è a mio avviso tra le opere più belle e ispirate di tutta la narrativa dell’ultimo Novecento italiano. Celati mi rispose con una lettera molto affabile e amichevole che ancora conservo, scritta a mano su un foglio a quadratini. Fu esattamente da questo episodio che nel 1993 nacque la mia conoscenza personale e successiva, ma sporadica, frequentazione dell’autore delle Comiche: lo scintillante libro d’esordio di Gianni, tenuto a battesimo da Italo Calvino (Einaudi, 1971). Per inciso, quel mio racconto, Momo, sarebbe poi uscito nel 1994, grazie a lui e soprattutto a Cesare Garboli (altro scrittore innamorato di Delfini), sulla rivista Paragone.
Nato il 10 gennaio 1937 a Sondrio, Celati aveva studiato a Bologna laureandosi con una tesi su James Joyce: scrittore al quale ha forse dedicato le sue maggiori attenzioni di scholar, traducendo, fra l’altro, il celebre romanzo Ulysses, frutto di un accanito lavoro durato oltre sette anni (Einaudi, 2013). Ma l’intensa attività traduttoria, che ha sempre accompagnato la sua creatività in prosa, era iniziata fin dagli anni Ottanta ed è proseguita fecondamente nei decenni seguenti.
Fra le opere squisitamente tradotte in italiano mi pace annoverare almeno Bartleby lo scrivano di Melville (1991), La Certosa di Parma di Stendhal (1993), I viaggi di Gulliver di Swift (1997), anni fervidi di scritture, traduzioni e progetti letterari; progetti, alcuni, anche giovanili(stici) e non realizzati, come ad esempio quello legato alla creazione di una rivista da curare insieme con Italo Calvino, Carlo Ginzburg, Enzo Melandri e Guido Neri. Le carte di questo progetto sono state poi raccolte in «Alì Baba». Progetto di una rivista, a cura di Mario Barenghi e Marco Belpoliti (Riga n. 14, 1998).
Ben diversa la sorte di un’altra ma felicissima rivista invece realizzata (Il Semplice), alla quale nel biennio 1995-1997, fecero capo, oltre a Celati che ne era la guida riconosciuta, non pochi scrittori italiani tra i più innovativi, quali Ermanno Cavazzoni, Daniele Benati, Luigi Malerba, lo stesso Antonio Delfini, Ero Zoni, Gian Ruggero Manzoni, Alessandro Carrera (quest’ultimo, insieme con il sottoscritto, contribuì alla migliore conoscenza di Celati in terra statunitense, con conferenze e letture organizzate rispettivamente presso la New York University e presso la Harvard University). Né va dimenticato il forte interesse di Celati verso la poesia.
Almeno due esempi, sia pure espressivamente divaricati tra loro: la splendida trascrizione in prosa del poema di Matteo Maria Boiardo, L’Orlando innamorato (Einaudi, 1994) e le vertiginose Poesie della torre di Hölderlin, che a suo tempo mi suggestionarono profondamente. Queste ultime versioni che uscirono da Feltrinelli nel 1993, l’editrice presso cui, dopo Einaudi, Celati avrebbe pubblicato la maggior parte dei suoi libri successivi.
Notevole e intrigante anche la sua attività cinematografica, per la quale ha prodotto documentari come Strada provinciale delle anime, Il mondo di Luigi Ghirri, Case sparse. Visioni di case che crollano.
La sua pressoché intera produzione narrativa è oggi raccolta nel Meridiano mondadoriano Romanzi, cronache e racconti a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri (2016).
Mi piace concludere questa mia veloce testimonianza con una annotazione di Franco Marcoaldi, tratta da un suo articolo uscito all’indomani della scomparsa di Gianni: C’è qualcosa di terribilmente struggente nella morte di Gianni Celati, avvenuta la scorsa notte a Brighton, in Inghilterra. Perché ora che il suo cerchio vitale si è chiuso, a 84 anni, l’impressione è che immaginazione e realtà, scrittura e vita, si siano sovrapposte tra loro in un travaso reciproco e continuo. Baudelaire parlava di correspondances, alludendo a quella rete misteriosa di concordanze, analogie, coincidenze che percorrono segretamente le vicende di ciascuno di noi (La Repubblica, 3 gennaio 2022).
Di Gianni Celati, in ultima analisi, resta indelebile e irresistibilmente accattivante ciò che io definirei una sorta di grandiosità fantastica, squisitamente felliniana, che si evince anche in opere solo apparentemente minori come ad esempio Recita dell’attore Attilio Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto (Feltrinelli, 1996) o in Vite di pascolanti (Nottetempo, 2006) cui arrise il Premio Viareggio. Uno scrittore, Celati, dotato di finissima, pungente, paradossale ironia, tenera e crudele insieme, e di fecondo impianto tendenzialmente sperimentalistico.
Contributo a cura di Luigi Fontanella, poeta e narratore. Insegna presso l’Università di New York
Immagine in copertina: Archivio Amici di Piero Chiara –