Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere.
Non credo sia difficile comprendere chi sia l’autore di queste parole. George Orwell, difatti, con la sua celebre opera 1984 non ha creato semplicemente una narrazione, ma un intero universo di senso, un linguaggio proprio e facilmente identificabile. Un exemplum di matrice distopica destinato a superare la propria generazione e a scolpire il volto delle storia letteraria degli ultimi decenni. Certo, basterebbe un minimo d’attenzione in più per realizzare che questo genere non nasce con il Big Brother. Come dimenticare, ad esempio, i Lillipuziani di Jonathan Swift e le angoscianti macchine di Fritz Lang? Quello che, invece, realmente nasce con il Grande Fratello non è la distopia, bensì il pensiero distopico, ossia quell’orientamento dell’immaginazione umana che trova negli scenari catastrofici, più che nelle lucenti utopie, il proprio terreno di riferimento.
Sul perché negli ultimi anni ci sia stata un’esplosione della produzione distopica e, contemporaneamente, un lento declino del pensiero utopico si è interrogata la filosofa ungherese Ágnes Heller, la quale, durante la presentazione del suo ultimo libro Il vento e il vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione, scritto in collaborazione con Riccardo Mazzeo, ha avuto modo di approfondire la propria posizione riguardo alla suddetta questione.
L’evento, svoltosi presso l’Università degli Studi della Basilicata, e organizzato dalla Fondazione Leonardo Sinisgalli, ha dato modo alla platea di interrogarsi essenzialmente sul rapporto che intercorre tra la fine delle grandi narrazioni e delle grandi ideologie, protagoniste dello scorso secolo, e la smania per il racconto distopico. La stessa autrice ha ammesso, durante la sua orazione, che l’origine del suo pensiero può essere rintracciata all’interno del suo vissuto personale e della sua autobiografia. Essere stata una spettatrice dell’Olocausto e delle persecuzioni del regime socialista ungherese, vivendo in prima persona il crollo delle grandi speranze legate alle utopie di stampo politico e la concretizzazione delle svolte totalitaristiche, non ha potuto che forgiare e condizionare inesorabilmente il suo modo di guardare alla storia e alla politica.
Secondo Ágnes Heller, infatti, l’intervento della distopia si pone comunque in un’ottica socialmente utile, dal momento che la sua narrazione funge da monito per il presente, mostrando le possibili conseguenze delle nostre azioni odierne. Questa tipologia di “prevenzione” appare estremamente più congeniale e più affine alla nostra generazione rispetto alla proposta di nuove “società ideali” che scontano proprio il peso di un passato fallimentare. A sostegno di questa tesi, potremmo, infatti, riportare l’incredibile successo di alcune serie tv, come la celebre Black Mirror, nota per la sua carismatica creazione di possibili scenari futuri in cui le tecnologie – e il loro impiego invasivo – hanno trasformato la società, la concezione dell’uomo, della sua dignità e, soprattutto, il controllo che egli ha sulla propria vita.
Se la distopia, quindi, si propone come interlocutore privilegiato per metterci in guardia rispetto ai possibili sviluppi negativi della nostra civiltà, in che modo è possibile preservare un discorso costruttivo che veda nell’immaginazione lo strumento adatto non solo a intimorire, ma anche a proporre soluzioni alternative e a progettare nuovi mondi e nuove possibilità?
Sicuramente il mito della società perfetta è crollato, così come la fede nel progresso e nella presunta santità della tecnologia. Di certo, se l’uomo ha iniziato a sentirsi più in sintonia con gli episodi della serie britannica di Charlie Brooker è perché ha compreso che, nella storia, il perseguimento di determinate utopie ha fatto sì che queste rivelassero inesorabilmente il proprio lato distopico e, nella riproposizione fittizia di quest’ultimo, ha percepito un maggiore senso di credibilità. Tutto ciò non esclude, però, che si possa continuare a lavorare affinché i nostri immaginari divengano continui laboratori di umanità e liberazione per tutti gli uomini. Nel momento in cui la distopia ci avverte, abbiamo dinanzi a noi due scelte: quella di rimanere passivi in uno stato letargico o quella di cogliere il suggerimento e iniziare a modificare il nostro vissuto, immaginando nuove soluzioni.
Parafrasando il noto filosofo Daniel Dennett, potremmo dire che è essenziale non scambiare mai una carenza dell’immaginazione per una necessità.