Se c’è un fattore che Matteo Salvini non aveva calcolato è sicuramente l’essenza della nostra Repubblica, vale a dire il suo essere democratica e parlamentare. Sarebbe stata certamente di gradimento del leader leghista una legge che attribuisse a chi è nato a Milano il 9 marzo 1973 con nome e cognome inizianti per M ed S la possibilità di sciogliere le Camere in qualunque momento, di violare un contratto senza alcuna conseguenza e di chiedere pieni poteri come se fosse un duce qualsiasi. Spiace per lui, ma le regole del gioco sono diverse.
Come sappiamo, il governo gialloverde è nato a seguito di un accordo tra due partiti che si erano presentati come avversari durante la campagna elettorale e che, dopo le elezioni del 4 marzo 2018, hanno stipulato un contratto in assenza di una maggioranza parlamentare in solitudine. Uno di questi, cioè il M5S, aveva proposto un accordo anche al PD, ma il veto di Renzi aveva mandato tutto all’aria, aprendo di fatto le porte al governo Conte. Non si sa, tuttavia, se tale scelta fosse dovuta al rifiuto dei pentastellati a Bersani di appena cinque anni prima o, semplicemente, se l’ex Sindaco di Firenze non avesse nessuna voglia di sedersi affianco dei suoi più duri oppositori durante il premierato e nella battaglia referendaria del 2016.
Proprio qualche giorno fa, sottolineavamo su questo giornale la centralità che la Costituzione merita di avere dopo i vari calpestamenti subiti negli ultimi 14 mesi, ed è la stessa Carta Fondamentale che all’art.60 stabilisce che la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica sono eletti per cinque anni. È vero, spesso ci siamo trovati in situazioni nelle quali è stato indetto lo scioglimento anticipato delle Camere, ma in questo caso siamo dinanzi a una maggioranza parlamentare che non c’è più e a una nuova che si potrebbe formare. La Costituzione, infatti, non impone che, venendo a mancare la maggioranza, si torni subito al voto, bensì il Presidente della Repubblica è tenuto a effettuare le dovute valutazioni per rendersi conto se un governo sia ancora possibile. E in questo contesto un patto politico potrebbe essere stipulato proprio da PD e M5S, cioè quegli stessi partiti che stavano per accordarsi un anno fa e che – stando ai risultati di allora – raggiungerebbero il 50% in Parlamento. Dunque, di cosa meravigliarsi?
Il punto, semmai, è un altro. Dopo le politiche di questi 14 mesi, è necessario un cambio di passo totale da registrare sia nei toni sia nei fatti, per risollevare l’Italia dall’imbarbarimento al quale il Ministro dell’Interno uscente ci ha condotto. Ed è altrettanto chiaro che l’esperienza traumatica appena terminata debba fungere da insegnamento a tutti, in primis ai grillini che, si spera, hanno capito che non bisogna sbavare dietro all’alleato-avversario e, in secundis, ai piddini – la cui tattica dei pop-corn non ha funzionato –, che si sono svegliati dopo essersi resi conto che votare tra due mesi significherebbe consegnare il Paese a una destra estrema, cinica e brutale.
E qui arriviamo al nocciolo della questione: è cristallino che l’idea di un governo con due partiti che non si sono mai risparmiati (senza di me, mai con il partito di Bibbiano, il popolo democratico non ha niente in comune con la violenza grillina) nasca dall’esigenza di costituire un fronte anti-Salvini poiché quest’ultimo, vincendo oggi le elezioni e governando per i prossimi 5 anni, eleggerebbe il Presidente della Repubblica nel 2022, avrebbe una forte influenza su un Parlamento che è chiamato a scegliere un terzo dei membri della Consulta e un terzo dei membri del CSM, guiderebbe una rivolta popolare contro l’Europa e ci isolerebbe dal resto del mondo.
Certo, costituire un governo con il solo scopo di sopravvivere sarebbe oggi guardato con sospetto e irritazione da parte degli italiani che ancora di più si affiderebbero al rozzo leader della Lega, legittimato poi a sottolineare di aver avuto ragione e a sentirsi il Padre Eterno (giusto per restare in ambito religioso). In tal caso, sicuramente il 50% dei consensi non glielo toglierebbe nessuno. Di conseguenza, per un accordo che non può avvenire senza un diretto coinvolgimento di Liberi e Uguali – l’area più vicina all’ala pentastellata rappresentata da Fico con posizioni maggiormente progressiste –, è indispensabile che il partito del Nazareno e il partito di Bibbona (dal nome del luogo in cui Grillo ha recentemente riunito i suoi) si confrontino sui punti in comune e su ciò che potrebbe rilanciare il Paese, imponendosi pochi paletti, se non nessuno, pensando prima a un’agenda di governo e poi ai nomi da piazzare sulle singole poltrone. Quindi, ripensare completamente alla gestione dei flussi migratori, aprendo un dialogo costruttivo con l’Unione Europea che renda tutti gli Stati che la compongono partecipi di un nuovo progetto, lasciando perdere le leggi disumane volute da Salvini e proponendo un piano di redistribuzione che metta al primo posto la vita delle persone e l’integrazione dei migranti migliorando i centri di accoglienza.
Introdurre, poi, il salario minimo, instaurando un clima di collaborazione con le parti sociali e ascoltando le proposte dei sindacati, mettere al centro del dibattito politico il welfare, dunque concentrarsi su sanità, istruzione, ricerca e lavoro, dando una svolta notevole ai contratti degli insegnanti, migliorando le strutture scolastiche e assumendo giovani professoresse e professori. Riformare seriamente il fisco, aumentando le pene per gli evasori fiscali e istituendo una sorta di patrimoniale (no, non è una parolaccia) in maniera tale che i ricchi paghino di più. Potenziare il reddito minimo, aumentando contemporaneamente i posti di lavoro e rilanciando, in questo modo, sia il REI del governo Gentiloni sia il reddito di cittadinanza, tanto voluto da Di Maio. Migliorare la legge anti-corruzione, irrigidendo le sanzioni per i reati contro la pubblica amministrazione e adottando un codice etico per i partiti, infine approvare finalmente una legge sul conflitto di interessi, tema a cui i Cinque Stelle sono affezionati e di cui il centrosinistra potrebbe giovare, a dispetto di tutti gli anni in cui quella legge il centrosinistra stesso non l’ha mai fatta. Impossbile, inoltre, non investire al Sud, dove spesso i diritti si scambiano per favori e ci si affida al primo salvatore della patria che passa, il più delle volte illudendosi e rimanendo delusi. Non moltissime cose, dunque, ma difficili.
Può essere questa, però, l’ultima occasione per il M5S e il PD di dimostrarci che qualcosa di buono possono ancora fare. Altrimenti, rassegniamoci e consegniamo il Paese a quelli là. Ma che nessuno, poi, dica che non era stato avvisato.