Ancora una volta, nell’udienza tenutasi il 28 febbraio, la detenzione preventiva di Patrick Zaki è stata rinnovata per ulteriori quarantacinque giorni. Sono trascorsi ormai tredici mesi da quando lo studente egiziano è stato arrestato, ingiustamente recluso in assenza di prove chiare e sulla base di un verbale di arresto falsificato nel carcere di Tora. È accusato di propaganda sovversiva, diffusione di notizie false e istigazione alla violenza e a crimini terroristici.
Le sue condizioni di salute peggiorano, la sua angoscia cresce e le autorità egiziane si accaniscono ancora contro di lui, palesando tutta la spietatezza del loro piano: sfinire quello che è considerato un dissidente politico e rinnovarne la detenzione ingiusta per il periodo massimo dei due anni. E anche dopo questo non ci si può illudere che sarà tutto finito.
Immediato l’allarme di Riccardo Noury, portavoce nazionale di Amnesty International Italia, che chiede una reazione decisa delle autorità per la scarcerazione di Patrick. Si tratta di una vicenda che coinvolge il governo italiano, che non dovrebbe permettere una tale violazione dei diritti, ma che – così come avvenuto per la morte di Giulio Regeni – ha perso tutte le occasioni avute per evitarla. Pochi giorni fa, Luigi Di Maio, Ministro degli Esteri, in un breve video si è detto profondamente preoccupato per la situazione degli attivisti di alcuni paesi in cui si registra una pericolosa battuta d’arresto nell’ambito dei diritti umani.
«Il mio pensiero corre immediatamente a Patrick Zaki, ancora ingiustamente detenuto in Egitto e di cui chiediamo il rilascio. Esigiamo poi che sia fatta luce sulla barbara uccisione di Giulio Regeni. Sollecitiamo ancora una volta il governo egiziano a garantire il pieno rispetto dei diritti e delle libertà sancite dalla sua Costituzione», ha proseguito Di Maio. Con un invito, un’esortazione, una flebile e poco convinta sollecitazione dopo mesi e mesi di silenzio in cui molto poteva e doveva essere fatto. E, invece, gli accordi economici con il regime egiziano sono proseguiti, i rapporti diplomatici non sono stati intaccati e l’interesse prioritario del profitto è stato salvaguardato. A nulla valgono parole – pochissime, d’altronde – spese se non accompagnate da fatti che manifestino la dissociazione totale da una simile barbarie, illudendosi di poter ottenere il rispetto della dignità umana, con un cortese invito, da parte di chi fa del terrore e delle torture il suo modus operandi ordinario.
Stavolta la Corte aveva anticipato l’udienza a prima che fossero trascorsi i 45 giorni previsti, così era sorta nell’opinione pubblica la speranza di un ravvedimento, proprio adesso che il padre di Patrick è gravemente ammalato e necessiterebbe della vicinanza del figlio. Le sue condizioni di salute – già precarie – si sono aggravate da quando Zaki è in carcere e per entrambi non avere notizie dell’altro è diventata un’agonia insopportabile. E, invece, la detenzione preventiva è stata rinnovata. Lo sconforto è tale che Patrick si è anche rifiutato di rendere alcuna dichiarazione in udienza, consapevole dell’impatto praticamente nullo che le sue parole hanno sulla Corte, oramai decisa a non ascoltare nessuna ragione, negandogli addirittura l’autorizzazione a restare solo per qualche minuto con il suo legale per avere aggiornamenti sullo stato di salute del padre.
È sfinito e vorrebbe lasciarsi andare, si sente sconfitto. Ma arrendersi significherebbe privarsi di tutto ciò per cui l’hanno incarcerato: la sua intelligenza, il suo animo positivo, la sua voglia di credere che il mondo possa essere un posto migliore.
Purtroppo, quella della carcerazione preventiva è una prassi che il regime egiziano utilizza molto spesso per colpire i dissidenti politici e gli attivisti per i diritti umani: basti pensare che dal settembre 2019 le autorità locali – in base a quanto riportato da Amnesty International – hanno avviato la più ampia campagna repressiva dalla salita al potere del Presidente Abdel Fattah Al-Sisi. In pochi mesi, oltre 2mila persone sono state incarcerate: si tratta per la maggior parte di manifestanti pacifici, giornalisti, avvocati e attivisti per i diritti umani. Anche per questi – come per Zaki – al centro delle accuse ci sono profili social e presunti post che incitano al terrorismo.
Uno dei tanti esempi è quello di Alaa Abdel Fattah, attivista e blogger che aveva già scontato ingiustamente cinque anni di detenzione per aver preso parte, nel 2013, a una protesta pacifica e che è stato nuovamente incarcerato, attualmente recluso nel terribile penitenziario di Tora. Lì avrebbe subito, insieme al suo avvocato Mohamed el-Baqer, torture e maltrattamenti disumani. Inoltre, sarebbe stato inserito – insieme ad altri ventisette egiziani – nella lista nera redatta dal Tribunale penale de Il Cairo che raccoglie le “entità terroriste” contro le quali far pesare ben cinque anni di restrizioni, tra cui il divieto di espatrio e la confisca del passaporto.
La stessa sorella di Alaa Abdel Fattah, Sanaa Seif, è stata incarcerata e sottoposta a detenzione preventiva con le accuse di diffusione di notizie false, incitamento a compiere reati di terrorismo e uso improprio dei social media. Tutti gli arresti avvengono in maniera irregolare, senza mostrare alcuna prova, per la semplice partecipazione o addirittura richiesta di partecipazione a manifestazioni pacifiche, e negando qualsiasi informazione e collegamento con i familiari. Una dimostrazione delle brutalità che il regime egiziano è disposto a compiere per reprimere tutto ciò che considera dissenso politico. Poche settimane fa, la sua furia ha colpito anche Ahmed Samir Abdelhay Ali, uno studente del Master dell’Università Centrale Europea di Vienna, arrestato a Il Cairo dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale, senza alcuna accusa chiara. Lo stesso dicasi per il direttore generale dell’EIPR (Egyptian Initiative for Personal Rights) Gasser Abdel Razek e per altri funzionari dell’ONG con cui Patrick collaborava.
Potremmo continuare all’infinito, e spesso le persone incarcerate restano in prigione anche dopo lo spirare del termine massimo per la custodia preventiva: a quel punto, il regime egiziano mette in campo un’altra pratica, denominata tadweer, ossia rotazione. Allo scadere della carcerazione preventiva si finisce imprigionati con un’altra accusa. È quanto avvenuto a Shimaa Samy, giornalista incriminata per aver scritto alcuni pezzi riguardanti i prigionieri politici, attualmente ancora detenuta nonostante sia stata disposta per lei la libertà condizionata.
Migliaia di storie e di volti di cui non sappiamo nulla, se non, quando il regime egiziano lo concede, pochissime righe da parte di chi si batte quotidianamente per i diritti umani. Vite stroncate, che pesano necessariamente sulle nostre coscienze. Ora è più che mai necessario che non solo il governo italiano, ma l’intera comunità internazionale intervengano a sostegno di Patrick e di chi, come lui, si trova a subire un simile supplizio basato su falsità ed esclusivamente per colpire le proprie idee. È necessario agire subito, prima che sia troppo tardi, prima che anche per Zaki – come per Giulio – non ci sia più niente da fare.