Tra poco più di dieci giorni, il 28 febbraio, è prevista la prossima udienza del processo contro Patrick Zaki, dopo l’ennesimo rinvio, a oramai tre anni dall’inizio di quella che molti definiscono una vera e propria persecuzione giudiziaria e non solo – aggiungiamo noi – se si considerano le condizioni di detenzione che l’attivista ha dovuto sopportare fino al 7 dicembre 2021, ma anche il fatto che egli è ancora soggetto a restrizione della libertà personale.
Da quando è stato scarcerato, infatti, e fino a quando il processo sarà in corso – la sua durata sembra prolungarsi all’infinito – non potrà lasciare l’Egitto: ciò ha significato per lui non poter continuare i suoi studi a Bologna né poter riprendere la sua vita, che era oramai per la maggior parte in Italia. Intanto, i capi d’accusa restano in piedi e, nonostante il sollievo provato al momento della scarcerazione, la preoccupazione rimane tanta se si considera che i reati di cui è accusato – diffusione di notizie false contro lo Stato egiziano, terrorismo, sovversione e minaccia alla sicurezza nazionale – possono costare a Patrick anche cinque anni di reclusione nelle prigioni egiziane e che i processi in tale regime risultano spesso completamente arbitrari, oltre che basati sul nulla.
Ricordiamo, infatti, che tutto sarebbe iniziato per dei post su Facebook di Patrick, tra l’altro mai mostrati chiaramente alla difesa, che hanno portato al suo arresto il 7 febbraio 2020 al suo rientro in Egitto. Contro di lui è stato utilizzata la carcerazione preventiva, strumento di repressione e tortura molto usato dal regime egiziano con il fine di portare allo sfinimento i prigionieri, in particolare quelli che sono considerati dissidenti politici, facendo eventualmente confessare loro anche reati mai compiuti. Una pratica che è stata usata migliaia di volte contro manifestanti, giornalisti, avvocati e attivisti, dalla salita al potere di Abdel Fattah Al-Sisi, talvolta anche prolungata con la cosiddetta tadwer, ossia rotazione, che consiste nel proporre un’ulteriore accusa allo spirare dei due anni previsti come termine massimo per la carcerazione preventiva.
Non a caso, l’attivista aveva scontato parte dei 668 giorni di reclusione proprio nel carcere di Tora, destinato in particolare ai dissidenti del regime di Al-Sisi: il suo trasferimento in quel luogo infernale era stato, a suo tempo, la conferma che non si sarebbe trattato di un caso di facile né veloce risoluzione poiché la competenza era passata in capo alla Procura Suprema di Sicurezza dello Stato, vero e proprio braccio destro del regime in fatto di repressioni e violenze arbitrarie. Dopo innumerevoli proroghe, poco prima che decorressero due anni, il giudice di Mansoura ha disposto la liberazione, permettendo a Patrick di abbracciare i propri cari, senza poter però riacquistare totalmente la sua libertà. Si tratta infatti di tenerlo incatenato in Egitto, senza alcuna possibilità di spostamento al di fuori del Paese e senza poter quindi ricostruire realmente la propria vita dopo la prigionia.
La violazione dei diritti umana reiterata in Egitto, fuori e dentro le prigioni, è sotto gli occhi di tutti, eppure il regime agisce indisturbato. Questo, come tanti altri, è un caso che riguarda anche l’Italia, trattandosi di un suo stesso studente, ma il nostro Paese, dopo qualche flebile e non incisiva parola d’interesse avanzata durante la carcerazione, ora tace. La vicenda è totalmente finita in ombra, oscurata dagli interessi economici fortissimi che legano noi e numerosi altri Paesi che amano definirsi civili all’Egitto. A nulla sembra esserci servita la vita spezzata di Giulio Regeni, se pur consapevoli che sia stato ucciso da un regime tiranno e privo di scrupoli, continuiamo a nutrire la forza di quello stesso regime con le nostre armi e i nostri accordi commerciali.
Ma possiamo davvero considerarci civili se ci voltiamo dall’altra parte mentre i diritti umani vengono violati sotto i nostri occhi? Cosa diremo se Patrick venisse condannato? Se venisse imprigionato in un carcere in cui si rischia quotidianamente la vita tra torture e violenze? Ci sentiamo così migliori di una dittatura di cui siamo complici?